Il cassero e la sicurezza in città

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La riproduzione di un affresco di Benedetto Bonfigli che mostra le mura difensive della città di Perugia accoglie i visitatori all’ingresso della mostra “Un giorno nel Medioevo. la vita quotidiana nelle città italiane dei secoli XI-XV”, aperta fino al 6 gennaio 2019 a Gubbio (Logge dei tiratori della lana, piazza Quaranta Martiri)

La città medioevale «si presentava chiusa nelle sue mura, con una figura ben definita, sormontata da innumerevoli torri». A Perugia le torri erano più di settanta e il profilo della città era delimitato da «cinque bracci o dita», dal centro concentrico ai «borghi radiali determinati dagli assi viari che li attraversavano», nei quali si insinuavano, fino a ridosso delle mura, le coltivazioni e le abitazioni dei popolani.

Già nell’XI secolo lo spazio all’interno delle mura etrusche era esaurito sia per lo sviluppo demografico sia per l’ingresso in città della “gente nuova” che «si stabilisce in genere alla periferia delle città o si affolla in zone abbandonate o disdegnate dai cittadini di vecchia data e ancor più dalle famiglie dell’aristocrazia consolare», ma non dai «canonici della cattedrale e i monaci di San Pietro, che possiedono quasi tutte le terre su entrambi i lati di questi due assi, vi facilitano l’insediamento dei loro ex contadini, livellari, affittuari ed enfiteuti del contado».

Nei secoli XII e XIII i cinque rioni cittadini appaiono strutturati e la barriera costituita dalla «cinta romana» viene distrutta e «si procede alla costruzione della cinta nuova, che incorpora alla città i sobborghi». La Chiesa attesta la situazione con la creazione di nuove parrocchie e consentendo l’insediamento degli ordini mendicanti e monasteri femminili. Tra la “gens nova” e i vecchi cittadini c’è ancora una separazione di censo e di interessi, testimoniata da un atto dell’11 luglio del 1223 con il quale i milites e i pedites addivengono ad un accordo che contempla l’abbattimento di opere difensive abusive realizzate dai popolani a ridosso delle mura sulle terre dei nobili. Le differenze tra la “terra vecchia” e la “terra nuova” trova conferma anche nel racconto di Pellini riguardo le porte dei sobborghi che «restarono chiuse la notte fino al 1276, quando gli abitanti di Porta Sole ottennero dalle autorità che rinunciassero a tale uso “non convenevole alla loro fedeltà”, seguiti ben presto dagli abitanti degli altri sobborghi». «Si tratta, più precisamente, di fatti accaduti nel 1266. Malcontento e sorda opposizione alla politica del Comune cominciarono a notarsi tra gli abitanti di Porta San Pietro a causa del regime poliziesco messo in atto dai custodi delle porte. Ma una notte dei primi di luglio le porte furono abbattute e asportate da ignoti». Il nuovo status quo è testimoniato da un documento del 1306 con il quale il Consiglio dei Priori stabilisce che il contado inizia oltre le porte dei borghi.

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La fedele riproduzione del Cassaero di Porta Sant’Angelo (Perugia) nel plastico di proprietà del Comune cittadino è in mostra nella sezione “Uno spazio difeso” della mostra

Il Cassero di Porta Sant’Angelo si inserisce in questo contesto di cambiamento sociale, demografico e cittadino ed è una delle porte cittadine costruita a partire dal XIV secolo come margine difensivo del confine settentrionale della città. Nel 1327 «se comencava a cavare egl fondamenta degl mura del borgo de la Concha … a la porta degl dicte mura enlla strada da sancto Matheo».
La nascita della porta del Cassero è strettamente connessa con lo sviluppo della zona di porta Conca e con «la necessità di una nuova parrocchia, lavoro e occupazione per la gente, costruzione di un grande tratto di muro a mo’ di recinzione della nuova area abitata». Furono i «signori priori e camerlinghi» a decidere di »circondare di muro molte habitationi fatte di nuovo verso la regione, e parte volta a settentrione, e di farvi una porta, che riuscisse per la dritta a San Matteo. E fu cominciata una tela di muro della Porta, hoggi detta di Sant’Angelo» e chiamarono «come architetto di quest’opra, e della bella Porta che hoggi si vede, un certo mastro Ambrogio». Il tal “mastro” nominato dal Crispolti è Ambrogio Maitani al servizio del Comune di Perugia in quel periodo per fortificazioni e autore delle decorazioni del duomo di Orvieto.

Porta o Cassero di Sant’Angelo è la denominazione che deriva dal vicino tempio dedicato a San Michele Arcangelo, ma in passato era anche chiamata porta degli Armeni per la vicinanza del monastero di San Matteo degli Armeni dei monaci basiliani: in un documento del 1272 il locus viene ceduto ai frati che già dimoravano in San Matteo. Il documento lascia intuire che una chiesa, o una costruzione, esista già. Un anno dopo si procede alla consacrazione della chiesa e i frati chiedono al Comune un aiuto per sostenere le spese della cerimonia. Il Comune accetta di buon grado, dimostrando una insospettata sensibilità. Nel primo decennio del ‘300 si erige una nuova chiesa che ottiene l’indulgenza da Clemente V e si parla di ordine di San Basilio. Un dato interessante è costituito dai lasciti testamentari, che testimoniano come la comunità fosse entrata nel cuore della gente.

Nei Consigli e riformanze del 1273 e negli Statuti del 1295 si fa menzione di una porta difensiva preeistente, ma spostata più in basso, verso la città. L’importanza della torre per il controllo del territorio esterno e di quello interno, del rione stesso, «la mostrarono i borghigiani di porta S. Angelo, i quali non solamente non vollero pagare, ma nemmeno far le guardie, e tostoché ebbero lingua che i Baglioni volevano occupare la torre di S. Angelo, se ne impossessarono essi stessi, né vi fu modo di farla restituire, se non al legato». Per il mantenimento del Cassero erano «destinati 70 fiorini d’oro annui», una guarnigione stabile, «comodità di acque» tale da renderlo «inespugnabile per battaglie di mano onde nelle guerre civili dalle quali fu in vari tempi molestata Perugia, si tenne gran conto della signoria di questa rocca, e vi furono eseguiti molti combattimenti».

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Il Cassero com’è oggi, all’ingresso nord del centro storico di Perugia

La costruzione del Cassero richiese molto tempo e la necessità di tale costruzione è testimoniata da una delibera degli organi comunali del 1342 con la quale si stabilisce «che per l’honore, stato e utilità de la cità predicta e deglie borghe d’essa se mure et alzese el muro el quale apresso e longo la porta nuova del borgo overo del soborgo de porta Sant’Angnolo, cioè da la dicta porta enfine a la turre la quale è socto essa porta apresso la strada per la quale se va al monasterio del le donne de Sancto Francesco, quactro overo cinque canne de muro a le spese del comuno de Peroscia, quando parrà aglie segnore priore de l’arte».

La torre fu ingrandita da Gherardo de Puy, abate del monastero maggiore di Cluny, detto il Monmaggiore, nel 1372 e nuovamente rimaneggiata da da Fioravante Fioravanti tra il 1416 e il 1424 su ordine di Braccio Fortebracci, «ma il Cassero o torre o fortificazioni che sopra ai fianchi si veggono della medesima, sappiamo che s’incominciarono a costruire il 24 luglio 1479. cospicua e ben munita è l’alta sua torre quadrata che nei trapassati secoli ebbe continuamente un presidio». Le stratificazioni dei tre diversi interventi costruttivi si notano benissimo nella sagoma della torre e al suo interno: per lo strato inferiore venne utilizzata la locale arenaria lavorata a piccole bugne, seguita da inserti in pietra calcarea e dal laterizio per la volta. Nei piedritti si vede ancora la scanalatura della porta a saracinesca.

Sul finire del XV secolo le torri di Perugia apparivano «logore, scassinate e crollanti». Molte vennero buttate giù e sacceggiate dei materiali. La salvezza del Cassero si deve all’intervento di papa Sisto IV al quale «parea bello il conservare quegli scheletri di animali feroci, nel 1476 fulminò scomunica e pena di cinquanta ducati contro chi le demolisse; ma non potè far sì che a’ nostri tempi più di tre ne restassero, quelle del campanile del Palazzo e della Porta Sant’Angelo, e quella degli Scalzi, detta ancora degli Sciri dal nome della nobile famiglia estinta che la possedeva».

Umberto Maiorca