Lo spiega la parola stessa: un recinto, delimitato da una siepe. Usato per il ricovero del bestiame. “Praesepire”, il verbo latino, spiega l’atto: cingere, chiudere, sbarrare. Che è anche difendere, proteggere, abbracciare.
Gesù, riferisce l’evangelista Luca, nacque in una stalla. E fu posto nel luogo dove si sistema il fieno che serve agli animali: su una mangiatoia, in una greppia. “Cripia” in basso latino. Da cui, nelle altre lingue d’Europa, tutte le parole con cui si definisce il presepe: “crechè” in francese, “crib” in inglese, “krippe” in tedesco e “krubba” in svedese. Anche ““wertep” nella lingua russa e “szopka” in quella polacca, vogliono dire mangiatoia e indicano la rappresentazione natalizia della Natività.
La prima attestazione del Natale è contenuta nel più antico calendario della Chiesa di Roma, il Cronografo romano del 354, redatto sotto papa Liberio. Nel documento è scritto: “Il 25 dicembre nacque Cristo a Betlemme di Giudea”. Bisogna però tenere presente che la festa più antica della cristianità non è il Natale, ma la Pasqua che ricorda la risurrezione di Cristo, motivo fondante della fede e base dell’annuncio stesso del Vangelo.
L’esatto giorno della nascita di Gesù non è tramandato in modo chiaro neppure dagli evangelisti. Così, i primi cristiani tendevano a festeggiare, a volte nello stesso giorno, soprattutto il Battesimo o l’Epifania, le date della rivelazione della divinità.
Come è noto, la maggior parte dei biblisti colloca l’anno della nascita di Cristo dopo il censimento di Augusto (8 a.C.) e prima della morte di Erode (4 a.C.). Dionigi il Piccolo, nel VI secolo, fissò la data per errore nell’anno 753 dalla fondazione di Roma. E da quella inesattezza decorre, in tutto l’occidente, la cosiddetta “era cristiana”.
Il primo ad affermare con chiarezza che Gesù nacque il 25 dicembre fu Ippolito di Roma, nel suo commento al libro del profeta Daniele, scritto intorno al 204.
In quel giorno, nel vecchio calendario giuliano, entrato in vigore nel 46 avanti Cristo e basato sul ciclo delle stagioni, cadeva il solstizio d’inverno: la notte più lunga e il giorno più corto dell’anno. Le ore fondamentali della rinascita del mondo. Cristo emergeva dal buio del peccato e vinceva le tenebre del male e della morte.
Come un’altra divinità, nata lo stesso giorno, della quale la festa cristiana del Natale prese il posto, in forma pressoché definitiva soltanto a partire dal IV secolo: il Sol Invictus, il dio del sole “mai vinto”, venerato dai romani fin dall’anno 200, all’epoca del regno di Settimio Severo. L’imperatore Eliogabalo (203 – 222) tentò, con poco successo, di imporne il culto al posto di Giove. Ci riuscì Aureliano (214 –275) grato al dio amico che con un sogno premonitore nel 272 lo aiutò a sconfiggere la regina Zenobia del regno di Palmira, mortale nemica di Roma. Tanto che appena due anni dopo, il 25 dicembre 274, l’imperatore consacrò la data del solstizio d’inverno come il “giorno natale del sole invicto”. Proclamò la “festa della luce”. E inaugurò in modo solenne, sul colle del Quirinale, il tempio dedicato al dio, insieme ai “Pontifices Solis Invicti”, i sacerdoti preposti al culto.
Nella Roma cosmopolita, nella quale si mescolavano culti diversi, la nuova religione del dio del sole si propagò rapidamente. Del resto l’antico culto, in altre forme, era celebrato da secoli in tutto il mondo antico. Già nella notte dei tempi a Stonehenge, in Gran Bretagna, in Val Camonica, in Iran, in Francia e in Irlanda. Ma anche in Grecia attraverso simbologie achee e in tutto l’Oriente.
Il Sol Invictus si sovrappose al Sol Indigens dei primi popoli italici, dio primigenio a cui resero sacrificio anche Enea e Circe, come ricorda Esiodo. Il culto del sole fu istituito da Tito Tazio, leggendario re dei sabini. Secoli dopo, il Sol Invictus diventò addirittura il dio protettore degli imperatori. In suo onore, Vespasiano fece innalzare una statua gigantesca. Traiano e Adriano ne stamparono l’immagine sui solidi, le monete del potere. E con Commodo “invictus” divenne l’appellativo stesso degli imperatori.
Il Sol Invictus, l’invincibile dio della luce dei soldati di Roma, si fuse con l’altro culto orientale di Mitra, una divinità prima induista e persiana, poi ellenistica e romana, adorata nelle religioni misteriche dal I secolo avanti Cristo al V secolo dopo Cristo. Anche Mitra era nato il 25 dicembre. Il culto del dio, guerriero e allo stesso tempo dispensatore di luce, riservato solo agli uomini, conobbe una grande espansione. E nella religione pubblica si identificò rapidamente con il culto romano del Sole.
Nel III secolo Roma era il maggior centro della cristianità in Occidente.
Il passaggio dalla festività pagana a quella cristiana fu facilitato dalla tradizione biblica che parlava del Messia come di un sole e di una luce: “Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge” (Lc 1, 78).
I primi scrittori cristiani distinsero in modo chiaro il “vero Sol iustitiae da quello venerato dai pagani e dai manichei” (Agostino, Enarrationes in Psalmos, 25, 2, 3). L’editto di Tessalonica, emesso il 27 febbraio 380 dagli imperatori Graziano, Teodosio I e Valentiniano II dichiarò il cristianesimo la religione ufficiale dell’impero e proibì sia l’arianesimo che i culti pagani. Ma ottanta anni dopo, nel sermone di Natale del 460, papa Leone I scriveva: “È così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto…”.
La parola “praesepe” comparve molto più tardi. Cominciò ad essere utilizzata per indicare una antichissima chiesa: la basilica romana di Santa Maria Maggiore. Papa Sisto III la fece costruire nel 432 dopo Cristo, un anno dopo il Concilio di Efeso. Nella città ionica era stato appena proclamato il dogma della “theotòkos”, ovvero della maternità divina di Maria. Poi, ai tempi di papa Teodoro I (VII secolo d.C) sull’Esquilino furono traslate anche le reliquie divine della Sacra Culla: i frammenti di legno, secondo la tradizione, provenivano dalla mangiatoia in cui Gesù fu posto subito dopo la nascita. La culla di Cristo è ancora lì, sotto l’altare papale, in una cripta voluta, secoli dopo, da Pio IX.
“Santa Maria Ad Praesepe”, la basilica legata in modo indissolubile al mistero della Natività, diventò così, per i cristiani, la chiesa “presso il presepe”.
I primi seguaci di Cristo scolpivano o dipingevano le scene della nascita del Redentore nei luoghi segreti nei quali solevano incontrarsi. L’immagine più antica della Madonna appare sul soffitto di una nicchia nella grande catacomba di Santa Priscilla, scavata nel tufo, per 13 chilometri, nelle viscere di Roma.
Lo stucco risale agli anni 30 o 40 del III secolo dopo Cristo. Nella pittura affrescata, la Vergine è seduta. Indossa una stola, il capo è coperto da un mantello. Maria accenna a un gesto, delicato e materno, verso il neonato che tiene sulle ginocchia. Vicino a lei appare un profeta: è Isaia o più probabilmente Balaam: nella mano destra stringe un rotolo; con la sinistra indica l’astro lontano che annuncia al mondo la nascita del Messia: “Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Num. 24,15-17). San Giuseppe non è rappresentato: nell’iconografia della Natività comparirà soltanto duecento anni dopo, nella prima metà del V secolo.
Poco lontano, nella cosiddetta “Cappella greca”, spunta un’altra immagine: una adorazione dei Magi che risale allo stesso periodo storico. I tre personaggi che offrono i loro doni sono i primi pagani che rendono omaggio al Figlio di Dio. Camminano a passo spedito, fasciati dai loro vestiti orientali, dai colori accesi e diversi. E la Madonna che li attende, seduta, somiglia a una matrona di Roma. Le prime comunità cristiane ripeteranno la medesima scena in altri cimiteri dell’Urbe: i Magi erano il segno della universalità della salvezza e del messaggio di Dio, diretto a tutte le genti del mondo.
In Oriente, negli stessi anni, i seguaci di Cristo si attenevano ancora al divieto della dottrina ebraica, chiarito da un celebre passo dell’Antico Testamento: “Non ti fare nessuna scultura, né immagini delle cose che sono su nel cielo, o sulla terra, o nelle acque sotto la terra. Non adorare tali cose, né servir loro…” (Esodo 20, 4-5).
Il più antico presepio del mondo risale al 330 dopo Cristo. È scolpito sulle lastre di marmo del Sarcofago di Adelfia, a Siracusa. E ci colpisce ancora per la sua commovente bellezza.
Il Bambino è in fasce, scaldato dal fiato del bue e dall’asinello. È protetto da una tettoia ricoperta da tegole e ceppi. Poco lontano, un pastore ha appena ricevuto dall’angelo la notizia della nascita miracolosa. Accanto, Maria, siede su una roccia. E quasi avvolge e protegge tutta la scena con il suo sguardo sereno di madre.
Il prezioso reperto è conservato al centro del nuovo settore del museo archeologico regionale “Paolo Orsi”, dedicato all’arte cristiana. Fu scoperto in un pomeriggio del luglio del 1872, all’interno di un cubicolo delle Catacombe di San Giovanni, da Francesco Cavallari, allora direttore delle Antichità di Sicilia.
Le lastre di marmo bianco, un tempo decorate da molti colori, rappresentano scene del Vecchio e del Nuovo Testamento.
Al centro del sarcofago, una valva di conchiglia racchiude i busti di due sposi: Adelfia, “clarissima femina”, unita per sempre a suo marito Valerio, che commissionò l’opera. Forse si tratta di quel Lucio Valerio Arcadio che fu console di Sicilia dal 325 al 330, proprietario anche della meravigliosa villa romana di Piazza Armerina, nei pressi di Enna.
Sotto il cartiglio che reca l’iscrizione “Qui giace Adelfia…”, il piccolo Gesù tende le mani verso i doni dei Magi, che ne bassorilievo preceduti da una stella a sette punte. Una corona sovrastata da una gemma simboleggia l’oro; una pisside, l’oggetto liturgico usato per conservare le ostie, custodisce l’incenso e la mirra.
L’Adorazione dei Magi è replicata in altri cimiteri cristiani. Appare ancora a Roma nelle catacombe di Priscilla sulla lastra marmorea della tomba di Severa (300 circa dopo Cristo), nella catacomba dei SS. Pietro e Marcellino, nella fronte di un sarcofago risalente alla prima metà del IV secolo, conservato nelle sale del Museo Pio Cristiano della Città del Vaticano e in un altro sarcofago, dello stesso periodo, scoperto a S. Paolo fuori le mura.
E si può ammirare ancora a Milano, nel sarcofago esposto al Museo Ambrosiano. Ma soprattutto in quello di Stilicone, conservato nella basilica di S. Ambrogio e inglobato in un ambone costruito in epoca medievale.
Fu scolpito molto probabilmente nella seconda metà del IV secolo.
Sul lato che guarda verso l’altare è rappresentata la scena di una delle prime Natività di cui abbiamo conoscenza. Gesù, anche se è in fasce, ha il volto di un adulto. Lo vegliano un bue e un asino. Le due bestie, secondo la lettura di Sant’Ambrogio, rappresentano la moltitudine del mondo: il bue, portatore del giogo della Legge, evoca il popolo giudaico; l’asino costretto dai pesi dell’idolatria, rappresenta i Gentili. A fianco, due uccelli beccano un grappolo d’uva: uno con convinzione, l’altro esitando: sono i fedeli, pronti a nutrirsi della “fede” oppure restii ad accogliere il messaggio di Cristo.
Ma il bue e l’asino non erano nella stalla con Gesù. E i pastori non cantavano. Perché “nel Vangelo non si parla di animali”. Lo ha scritto papa Benedetto XVI nel suo saggio “L’infanzia di Gesù”, costato nove anni di studi. Joseph Ratzinger spiega che in ogni caso “nessuna raffigurazione del presepe rinuncerà al bue e all’asino”. E aggiunge: “La povertà è il vero segno di Dio”.
Il presepe, sotto l’onda della fede, si arricchì presto di altri personaggi e altri simboli. Con nuovi significati allegorici.
Nella rappresentazione, il bue e l’asino furono aggiunti da Origene, interprete delle profezie di Abacuc e di Isaia (1,3):“Il bue conosce il proprietario e l’asino la greppia del padrone; ma Israele non conosce e il mio popolo non comprende”. Gli animali vicino alla mangiatoia diventano i simboli del popolo ebreo e dei pagani. Davanti al Dio che nasce in una stalla tutti gli uomini, erano come buoi ed asini, privi di intelligenza e conoscenza. Benedetto XVI scrive: “Ma il Bambino nella mangiatoia ha aperto loro gli occhi, cosicché ora essi riconoscono la voce del proprietario, la voce del loro Signore”.
Gli angeli presenti nella scena toccante della Natività sono il modello di creature superiori, testimoni dell’evento straordinario.
Quanto alla grotta, nella iconografia orientale, simboleggia il ventre della terra. Nei Vangeli canonici non se ne fa menzione. Ne parlano invece due Vangeli apocrifi, il Protovangelo di Giacomo e il Vangelo dello pseudo Matteo che risalgono al II secolo dopo Cristo. La descrivono rifulgente di luce, “come se vi fosse il sole”.
Di una grotta parlò, per la prima volta San Giustino, filosofo e martire, nato in Palestina, che 150 anni dopo gli avvenimenti scrisse: “Al momento della nascita del bambino a Betlemme, poiché non aveva dove soggiornare in quel villaggio, Giuseppe si fermò in una grotta prossima all’abitato e, mentre si trovavano là, Maria partorì il Cristo e lo depose in una mangiatoia, dove i Magi, venuti dall’Arabia lo trovarono” (Dialogo con Trifone, 78). Sul luogo, dove fu edificata una basilica, già nel IV secolo accorrevano numerosi i pellegrini.
I primi ad adorare il Bambino furono i pastori, che all’epoca, nella scala sociale, erano visti come degli emarginati, persone che vagavano fuori dai centri abitati, senza una fissa dimora. Le loro figure furono aggiunte nei presepi in età medievale. Il numero variava, secondo le circostanze. Nella rappresentazione, ascoltano per primi, accanto alle loro greggi, l’annuncio dell’angelo . E l’adorazione del Bambino venuto al mondo in una mangiatoia è il passo iniziale per un cammino di conversione capace di allontanarli dai peccati del mondo.
Gli ultimi ad apparire sulla scena del presepio furono i Re Magi. Il Vangelo di Matteo non fa i loro nomi e non dice quanti fossero. Nei testi non canonici il loro numero varia da due a dodici. San Leone Magno (390-461) stabilì che fossero tre, come le età dell’uomo (gioventù, maturità e vecchiaia) e le razze in cui, secondo il racconto biblico, è divisa l’umanità: semita, giapetica e camita.
L’europeo Melchiorre (“il signore della luce”) è inginocchiato oppure prostrato e porta l’oro al bambino nato in una grotta; l’orientale Gaspare (“il signore della forza-splendore”) e l’africano Baldassarre (“il prediletto del Signore”) portano a turno incenso e mirra, due piante che crescono sia in Africa che in Asia.
I doni parlano alla duplice natura di Gesù e alla sua regalità: l’oro è riservato ai re, l’incenso alla divinità e la mirra all’uomo, poiché veniva usata come unguento per i corpi dei morti. Ricorda ai fedeli il destino di Cristo, che si immola per la salvezza del mondo, senza passare dalla corruzione del sepolcro.
Con la Natività, il tema della luce entra nella liturgia cristiana. Il primo sermone sull’argomento fu quello di Papa Liberio, nella notte di Natale dell’anno 354. Nel giro di qualche anno, la festa passò da Roma all’Oriente. San Gregorio il Teologo la introdusse a Costantinopoli (380 d.C.) e San Gregorio di Nissa, qualche anno dopo, in Cappadocia. I cristiani che vivevano in Palestina, nei luoghi dove si svolsero i fatti, furono così gli ultimi a festeggiare il Natale.
Secondo la tradizione, la prima rappresentazione della nascita del Salvatore fu un affresco, voluto dall’imperatore Costantino e subito esposto a Betlemme, nella basilica della Natività. Forse fu proprio questa l’immagine che venne riprodotta, in un periodo imprecisato del VI secolo su una ampolla conservata a Monza e identica a una icona del Monte Sinai realizzata un centinaio di anni dopo.
Quel che è certo è che a partire dal IV secolo la Natività divenne uno dei temi dominanti dell’arte religiosa. Rappresentata in migliaia di pitture, affreschi, sculture, bassorilievi, argenti, ceramiche, avori e vetrate. Capolavori realizzati, nel corso dei secoli per chiese, monasteri, nobili, facoltosi committenti e mecenati famosi da artisti immortali, come Giotto, Filippo Lippi, Piero della Francesca, il Perugino, Durer, Rembrandt, Poussin, Correggio, Rubens, e centinaia di altri.
Opere raffinate, in ricordo di un giorno che ha segnato la storia dell’umanità. E che già nel Medioevo spiccavano per il loro valore artistico.
Come la copertina lignea di un Reliquiario del IV secolo, conservata al Museo Sacro Vaticano di Roma. Oppure il bassorilievo della Cappella dei SS. Quirino e Giulitta del Museo arcivescovile di Ravenna (V secolo).
Uno splendido dittico del V secolo, a cinque parti in avorio e pietre preziose che si aggiunge alla lunga lista di meraviglie del Duomo di Milano.
L’affresco della Chiesa di S. Maria Foris Portas a Varese (VII-VIII secolo) riecheggia una iconografia orientale, con la Madonna distesa su un grande cuscino, al centro della scena. Verrà mirabilmente ripresa, quasi ottocento anni dopo, nella Icona della Natività della Scuola di Rublëv (1410-1430), ora esposta presso la Galleria Tretjakov di Mosca, un’opera che in modo ambizioso e esemplare riassume in un dipinto l’intera storia della salvezza.
Immagini stupefacenti, dagli straordinari mosaici del XII secolo della Cappella Palatina di Palermo, ubicata al primo piano del Palazzo dei Normanni fino alle iconografie del Battistero di S. Maria a Venezia e delle Basiliche di S. Maria Maggiore e S. Maria in Trastevere a Roma.
Dallo sguardo all’anima il passo fu inevitabile. La prima rappresentazione statica della Natività, il primo presepe della storia, da vivere come un momento interiore di fede e meditazione, arrivò insieme al messaggio rivoluzionario di Francesco d’Assisi.
Il mistero dell’incarnazione e la Natività affascinavano il Poverello in modo particolare. La gioia del Natale lo pervadeva ogni volta.
Tommaso da Celano nella “Vita seconda”, riporta le parole di entusiasmo del santo: “Se potrò parlare all’imperatore lo supplicherò di emanare un editto generale per cui tutti quelli che ne abbiano la possibilità debbano spargere per le vie frumento e granaglie affinché in un giorno di tanta solennità gli uccellini e particolarmente le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza”.
Questa gioia, intima e profonda, negli ultimi mesi del 1223, tre anni prima della sua morte, mitigava appena una disperazione profonda. In quello stesso anno, i suoi confratelli avevano riscritto la Regola finale dell’Ordine francescano. E papa Onorio III l’aveva approvata. Francesco, nemico di ogni discordia, aggiunse la sua firma al documento che sopprimeva e censurava molte delle sue richieste, fino a stravolgere le sue indicazioni su temi come il rapporto dei frati con il denaro, il divieto di riconoscere gerarchie, l’aderenza stretta al messaggio evangelico e una vita meno aspra e più lontana da “madonna Povertà”.
Il santo visse tutta la vicenda delle nuove regole come una sconfitta. Nei mesi amari che i biografi definirono della “grande tentazione”, pensò anche di abbandonare tutto e di disinteressarsi completamente della comunità francescana, ormai cresciuta a dismisura e molto diversa da come l’aveva immaginata.
Francesco si ritirò sempre più negli eremi. E spesso fuggì anche la compagnia dei suoi fratelli più affezionati.
Greccio, nei pressi di Rieti, era uno dei luoghi che amava di più. Il paesaggio intorno al piccolo paese nascosto tra gli alberi, allora povero, paludoso e malsano, quasi appartato dal mondo, gli richiamava alla mente la sperduta Betlemme, la “culla di Cristo” che voleva visitare quattro anni prima, nel 1219, quando andò in Egitto durante la quinta crociata, per convincere i crociati a non uccidere per non tradire il messaggio cristiano. Allora predicò il suo messaggio d’amore anche tra gli “infedeli” e anche il sultano lo accolse con onore. Ma i suoi sforzi per la pace si rivelarono inutili. E Francesco non riuscì a visitare il luogo della Natività.
A Greccio, di passaggio dai suoi eremitaggi nella Valle Santa reatina, si ritirava sempre in una piccola cella scavata nella roccia. Lì, nel silenzio della natura, pensò di far rivivere la nascita di Gesù.
Mandò allora a chiamare Giovanni, il “dominus” del villaggio fortificato di Greccio. Era un amico fidato con il quale aveva rapporti familiari e frequenti. In quell’uomo, scrisse Tomaso da Celano, “stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne”. A lui chiese di organizzare per la notte di Natale, una “rappresentazione” vera della nascita di Gesù. Per meditare sul mistero della Natività. Tommaso da Celano riporta le parole che rivolse a Giovanni: “Vorrei rappresentare il bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia, e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Ma non voleva uno spettacolo. Anzi, temeva che la sua iniziativa venisse mal interpretata. Per questo, secondo S. Bonaventura, prima di mettere in atto il suo progetto, chiese anche il permesso del papa.
Che evidentemente arrivò in modo celere.
Quella notte di vigilia del Natale 1223 entrò nella storia.
A Greccio accorsero gli abitanti dei paesi vicini, molti frati e numerosi pellegrini. Scrisse il Celano: “Arrivarono uomini, donne festanti, portando ciascuno, secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte”. Si preparò la scena della rievocazione con la greppia, il fieno, il bue e l’asinello.
Nessuno dei presenti prese il posto della Madonna, di San Giuseppe e del Bambino. Intorno al presepe si celebrò la messa, in una atmosfera di grande commozione. Francesco vi prese parte, rivestito dei paramenti diaconali. Era infatti entrato “per obbedienza” nel clero anche se si riteneva “indegno” del sacerdozio.
Cantò il Vangelo con voce “forte e dolce, limpida e sonora”. E predicò parlando del “Bimbo di Betlemme” nato povero in una stalla. Chiara Frugoni, eminente studiosa francescana, nel libro “Medioevo. Storia di voci, racconto di immagini” (Laterza editore) scritto insieme a Alessandro Barbero, dà la sua lettura dello storico avvenimento: “Il presepio di Francesco voleva essere la sconfessione della crociata: Betlemme era dovunque, anche a Greccio, perché i cristiani dovevano ritrovarla dentro il loro cuore e non raggiungere quel luogo santo a prezzo di massacri”.
Non c’era bisogno di guerre per arrivare alla Terra Santa. A Greccio, attraverso una rappresentazione semplice e realistica, la storia di Natale fu resa accessibile a tutti, anche a chi non sapeva leggere.
Il tema iconografico venne sviluppato dalle arti plastiche. Come dimostrano altri capolavori scultorei.
Il più antico è un gruppo marmoreo di tre statue datato “ante 1240” e attribuito al Maestro dei Mesi di Ferrara. È conservato nel seminario patriarcale di Venezia. C’è un solo re magio, genuflesso davanti alla Madonna in trono con in braccio il Bambino. Accanto, il san Giuseppe che si appoggia a un bastone richiama la figura del pastore –profeta delle icone bizantine.
Lo stesso artista realizzò, nei primissimi anni del XIII secolo, “Sogno e Adorazione dei Magi”, il ciclo scultoreo che a Forlì adorna la lunetta del portale dell’Abbazia di San Mercuriale.
Nel 1280, meno di cinquanta anni dopo la rappresentazione del presepe di Greccio Arnolfo di Cambio scolpì un presepe di eccezionale valore artistico. L’opera, conservata nella Cappella Sistina della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, per lungo tempo fu ritenuta la prima rappresentazione a tre dimensioni della Natività. E la sua fama oscurò i mosaici, gli affreschi e i bassorilievi realizzati in precedenza.
Le figure furono sistemate in un grande spazio, proprio all’ingresso del tempio. I fedeli che entravano nella grande chiesa si trovavano così subito coinvolti nella scena del presepe, al pari degli altri personaggi della rappresentazione. Solo tre statue originali sono giunte ai giorni nostri (San Giuseppe, il bue e uno dei Re Magi). Il pezzo marmoreo della Vergine fu sostituito nel ‘500 da un’altra scultura. Ma la posizione di un Magio in ginocchio e soprattutto la direzione del suo sguardo, ci fanno pensare che Arnolfo raffigurò la Madonna sdraiata sul fianco, secondo una tipologia altomedievale, con la testa rivolta verso il Bambino, adagiato sulla mangiatoia scolpita all’altezza del pavimento.
Un altro, antichissimo presepe, uno dei più grandi d’Italia, risalente all’ultimo decennio del XIII secolo, si può ancora ammirare a Bologna, nella Basilica di Santo Stefano. Le sculture in legno che compongono la “Adorazione dei Magi” sono a grandezza d’uomo. Furono scolpite da tronchi di tiglio e di olmo da un anonimo artista bolognese. Una teca a temperatura controllata elettronicamente, le protegge dall’umidità dopo un recente, ennesimo restauro. Rimasero prive di colore fino al 1370, quando il pittore bolognese Simone dei Crocefissi applicò il ritocco policromatico, in stile gotico. Il complesso di edifici di culto che comprende la chiesa, edificato in una delle più belle piazze della città, fu voluto da S.Petronio, ad imitazione del Santo Sepolcro. La ”Gerusalemme bolognese”, per secoli fu una tappa importante nei percorsi dei pellegrini che si recavano a Santiago de Compostela o che scendevano verso Roma per poi incamminarsi verso la Palestina. Così fecero fortuna le botteghe artigiane specializzate nell’arte sacra e molti scultori e ceramisti realizzarono le figure per i presepi nelle principali chiese cittadine.
Dal secolo XIV la Natività è affidata all’estro figurativo degli artisti più famosi che si cimentano in affreschi, pitture, sculture, ceramiche argenti, avori e vetrate che impreziosiscono le chiese e le dimore della nobiltà o di facoltosi committenti dell’ intera Europa, valgano per tutti i nomi di Giotto, Filippo Lippi, Piero della Francesca, il Perugino,
Michael Pacher (1435–1498) pittore e scultore, indiscusso maestro del Quattrocento austriaco, ispirato dall’arte di Donatello ed Andrea Mantegna, realizzò uno straordinario altare gotico intagliato all’interno della chiesa di S. Wolfgang, nella regione di Salzkammergut: il suo “Trittico” che comprende una emozionante Natività, unisce la pittura e la scultura lignea con effetti sorprendenti.
L’arte presepiale abbandonò i simboli medievali. Ma trovò altri interpreti eccellenti.
Il presepe moderno ha una data e un luogo di nascita preciso: a Napoli, nel 1534, San Gaetano da Thiene allestì una grande rappresentazione con statuette lignee, abbigliate secondo la moda del tempo, presso l’Ospedale degli Incurabili. E nel 1627, nella stessa città, i padri Scolopi realizzarono il primo presepe mobile, a figure articolabili. La tradizione natalizia, in tutta Italia, passò presto dalle chiese alle case patrizie.
Nel Seicento, per le famiglie patrizie di Roma il presepe diventò un vero e proprio “status symbol”. Così anche Gian Lorenzo Bernini (1598 -1680) autore del colonnato e del baldacchino di San Pietro, del Palazzo di Montecitorio, delle splendide fontane del Tritone e di Piazza Navona, della statua di Apollo e Dafne e di decine di altri capolavori sparsi nella capitale, impiegò i suoi numerosi talenti per realizzare un presepe sfarzoso che gli era stato commissionato dai Barberini. Per l’occasione, ritrasse Antonio Emanuele, marchese di Funta nelle vesti di un Re Mago nero. Di quel presepe spettacolare si parlò a lungo.
Nell’età barocca, ricordava Giambattista Marino “È del poeta il fin la meraviglia…”. La massima si poteva trasferire anche a chi progettava nuovi e stupefacenti presepi. Diventati, nei secoli successivi, sempre più animati, fantasiosi e colorati. Ma sempre più lontani dalla umile e silenziosa Greccio di Francesco.
Virginia Valente