Il primo parlamento d’Inghilterra, ironia della sorte, nacque soprattutto per volontà di un francese, Simone V di Montfort, sesto conte di Leicester, visto a lungo dalla corte inglese e da molti nobili britannici come un ambizioso “parvenu”.
Era il 20 gennaio 1265. Un giorno passato alla storia: perché nei tre regni delle isole britanniche c’erano stati altri parlamenti ma nessuno era mai stato elettivo. Guglielmo il Conquistatore nel 1066 aveva introdotto sull’isola l’usanza normanna del “consiglio del re” al quale partecipavano feudatari e uomini di chiesa. Già nel 1215 Giovanni Senzaterra era stato costretto a concedere ai baroni la Magna Carta, considerata la radice delle moderne costituzioni parlamentari e delle libertà individuali: il patto scritto stabiliva che il sovrano non poteva esigere tasse, se non quelle feudali, senza un via libera del consiglio regale. Nel solenne contratto venivano riconosciuti diritti reciproci.
Ma la parola parlamento in Inghilterra arrivò più tardi: comparve per la prima volta nel 1248 per designare un’assemblea di baroni sia ecclesiastici (vescovi e abati) che laici (espressione della corona).
Il 20 gennaio 1265, per la prima volta, l’assemblea era veramente elettiva. Nel Palazzo di Westminster si riunirono i membri dell’aristocrazia e del clero ma anche i rappresentanti delle contee e dei cosiddetti “borough”, i più importanti centri fortificati della nazione. Il diritto di voto fu esteso a tutti coloro che possedevano terra per una rendita di 40 scellini. Nei comuni la scelta dei rappresentanti variò a seconda del singolo municipio perché ogni località pretendeva di adottare un suo specifico metodo di elezione.
L’assemblea non fu approvata dal re, Enrico III, figlio primogenito di Giovanni Senza Terra e della contessa Isabella d’Angoulême. Ma il sovrano era nelle mani dei nobili, in senso letterale: prigioniero, insieme a suo figlio, il principe Edoardo, di Simone V di Montfort (1209–1265) che per 18 mesi, dal 1264 fino alla sua morte nella battaglia di di Evesham fu, di fatto, il signore d’Inghilterra.
Eppure Simone era stato uno dei nove padrini al battesimo del principe ereditario. E soprattutto era il marito della sorella del re. Nel gennaio del 1238 aveva infatti sposato la sedicenne Eleonora Plantageneto.
Il matrimonio fece scandalo perché la ragazza aveva appena fatto un solenne voto di castità perenne. Seppur giovanissima, era già vedova: era stata data in sposa a soli 10 anni al trentacinquenne Conte di Pembroke, figlio di Gugliemo il Maresciallo, tutore di Enrico III e reggente della corona. Senza marito e ancora adolescente, Eleonora era destinata al convento. Ma Simone la sedusse e la sposò in segreto. Enrico III, di mala voglia, accettò il fatto compiuto, tra le altissime proteste della nobiltà inglese che chiedeva di dire la sua, come prevedevano le regole del tempo in occasione di un matrimonio così importante. E anche perché un nobile di non così alto lignaggio diventava, di colpo, potente più di loro.
Anche Edmondo Rich, arcivescovo di Canterbury, tuonò contro le nozze e chiese di inficiarle per il voto di castità calpestato così in fretta. Ma la determinazione della giovane Eleonora ebbe la meglio. La ragazza, innamorata del nobile Simone V di Montrfort, non aveva nessuna intenzione di passare il resto dei suoi giorni in preghiera. Così partì per un pellegrinaggio a Roma: fu ricevuta dal papa e riuscì ad ottenere in fretta la dispensa che annullava il precedente voto di castità. Quel matrimonio fu comunque felice: nacquero sette figli che svolsero un ruolo di primo piano nelle successive vicende della storia inglese.
L’asprissima lotta di potere tra i sovrani inglesi e i baroni del regno veniva da lontano. Enrico III era salito sul trono a soli nove anni. Suo padre, sul letto di morte l’aveva affidato a un tutore speciale: Guglielmo il Maresciallo, il più celebre dei cavalieri inglesi. Quando il reggente morì, il giovane re si tuffò nell’agone politico ma si trovò subito di fronte a grandi difficoltà. Tentò più volte, invano, di riconquistare alcune delle terre francesi che erano appartenute a suo nonno Enrico II Plantageneto. E sul più ampio tavolo europeo si impegnò a sostenere sia dal punto di vista economico che militare, le imprese politiche del papa Alessandro IV. Ma non riuscì a mantenere gli impegni. E a pagare i tanti debiti che aveva contratto. Così quando il pontefice lo minacciò di scomunica, Enrico III fu costretto a chiedere l’aiuto dei baroni del regno. Quell’assistenza, come succede sempre, non fu gratuita.
I baroni avevano sperimentato il governo dell’aristocrazia durante la minorità di Re Enrico. E alcuni “parlamenti” con un sovrano indebolito dalla reggenza, si erano riuniti più volte, come conferenze a partire dal 1246.
Il peso della potente burocrazia di corte voluta dai sovrani Plantageneti stava stretta ai baroni che di tanto in tanto chiedevano, inascoltati, di ripristinare la Magna Charta. Nell’aprile del 1258 si giunse alla rottura: i baroni costrinsero Enrico III ad accettare una nuova forma di governo che venne esposta nelle disposizioni decise durante quello che fu definito il “Mad Parliament”, il “Parlamento pazzo” di Oxford, il luogo che fu teatro del braccio di ferro tra i nobili e la corona.
Il potere del regno passò a un Consiglio privato di 15 membri che poteva sorvegliare e supervisionare l’amministrazione locale, le nomine ministeriali e la custodia dei castelli reali. I giuramenti di fedeltà dovevano essere prestati sia al re che al Consiglio privato. Venne limitata la presenza degli stranieri nella burocrazia e fu ripristinata la carica di Gran Giustiziere che stava molto a cuore ai baroni. Fu stabilito anche che il Parlamento si dovesse riunire tre volte l’anno per monitorare l’operato di quello che apparve come un direttorio.
Il re era ancora sotto tutela. L’accordo non poteva durare. E infatti non durò. Già l’anno successivo le divergenze tra Enrico III e il più autorevole dei baroni, suo cognato Simone V di Montfort, si acuirono. Finché si arrivò allo strappo: nel maggio del 1262 il re annunciò di non riconoscere più gli Statuti di Oxford. Poco dopo i baroni riuscirono a rimetterli in vigore ma il sovrano li abolì di nuovo dopo qualche mese.
Qualunque trattativa apparve allora inutile. La parola passò alle armi. E l’Inghilterra visse una sanguinosa guerra civile.
In una decisiva battaglia combattuta a Lewes nel 1264, le truppe dei baroni ribelli fecero prigionieri il re Enrico III d’Inghilterra, suo figlio, il futuro, Edoardo I d’Inghilterra e anche Riccardo di Cornovaglia, fratello del sovrano.
Simone V di Montfort assunse il governo del regno e il 20 gennaio 1265, convocò il primo Parlamento d’Inghilterra che decretò senza l’assenso del re. Ma i baroni non rimasero uniti. Gilberto di Clare, VII conte di Gloucester lasciò i nobili e tornò nel campo del re. La sua diserzione permise al sovrano di scappare dalla prigione nella quale era stato rinchiuso. Simone allora chiamò a sé i Llywelyn, i signori delle Marche Gallesi che in cambio dell’appoggio del loro esercito chiesero il titolo di principi di Galles e tutti i guadagni che fossero venuti dalla campagna di guerra. Molti baroni non erano d’accordo. Simone invece accettò l’intesa ma perse altri seguaci. Tra alterne e sanguinose vicende, si giunse allo scontro decisivo. Un massacro che cambiò la storia d’Inghilterra: la battaglia di Evesham.
Le forze del re erano il doppio di quelle di Simone V di Montfort. Oltretutto Llywelyn e i suoi gallesi disertarono all’ultimo minuto. L’esercito dei baroni si trovò presto stretto in una tenaglia. Molti baroni che volevano arrendersi furono comunque uccisi. Quasi nessuno venne preso prigioniero in vista del pagamento di un riscatto: la pratica, che fino ad allora era comune in quasi tutte le battaglie, non venne seguita.
La posta in gioco era troppo alta e la strada della pietà non era contemplata. Fu un bagno di sangue. Simone di Montfort e suo figlio Enrico, battezzato con quel nome in onore di suo zio il re, vennero uccisi e i loro cadaveri furono orrendamente mutilati.
Tutti i ribelli furono privati delle loro proprietà. Nell’autunno del 1266 le ultime sacche della resistenza dei baroni furono di fatto eliminate.
La famiglia reale riprese il comando dell’Inghilterra. Un nuovo Parlamento, convocato a Marlborough (1267) promulgò alcune delle riforme volute dai baroni che furono attuate negli ultimi anni del regno di Enrico III. Ma già allora il potere venne esercitato dal figlio maggiore Edoardo, che poi diventerà re con il nome di Edoardo I.
Il nuovo sovrano convocò un altro Parlamento nel 1295. Fu chiamato “Model Parliament” perché fu il modello di tutte le successive assemblee.
A partire dal cinquantennale regno di Edoardo III (1312-1377), il Parlamento inglese fu diviso in due camere separate: una includeva la nobiltà e l’alto clero, l’altra comprendeva i cavalieri e i cittadini. Nessuna legge poteva essere promulgata né alcuna tassa imposta senza il consenso dei due organi parlamentari.
Poi, a partire dal XV secolo una consuetudine si trasformò in norma: divenne usuale che il Parlamento, prima di approvare la tassazione proposta dal sovrano, presentasse alla corona una serie di doglianze. Il re non solo aveva solo l’obbligo di ascoltarle, ma spesso era tenuto ad accoglierle se voleva che la tassa proposta fosse approvata.
Grazie a questo meccanismo l’istituzione parlamentare inglese si trasformò da organo di consultazione in organo di controllo.
Federico Fioravanti