Il racconto del Medioevo nelle canzoni di Francesco Guccini

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È nato quattro giorni dopo l’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, il 14 giugno del 1940. Figlio della guerra e compagno di strada per almeno tre generazioni di italiani.

Sedici album, otto dischi “live”, ventiquattro libri e quasi cinquecento concerti non bastano a raccontare Francesco Guccini: cantante, scrittore, giornalista, occasionalmente anche attore.

Francesco Guccini con Federico Fioravanti al teatro Morlacchi di Perugia nel novembre 2016, durante l’incontro “Dove va la canzone d’autore” organizzato dall’associazione culturale Per Perugia

“Un burattinaio di parole” dice di sé. “Eterno studente”: così si è definito in Addio, una delle sue canzoni più intime (1999). Perché “la materia di studio sarebbe infinita e soprattutto perché so di non sapere niente”. Una citazione socratica. Non a caso, Umberto Eco che alla fine degli anni Settanta, nelle notti bolognesi ingaggiava con lui infiniti duelli in ottava rima, lo considerava “il più colto dei cantautori in circolazione: la sua è poesia dotta, intarsio di riferimenti: che coraggio, far rimare “amare ” con “Schopenhauer”!

Francesco schivò il complimento con l’ironia d’ordinanza. Ma corresse il semiologo: quel verso del Frate ( “Dopo un bicchiere di vino, con frasi un po’ ironiche e amare, parlava in tedesco e in latino, parlava di Dio e Schopenhauer”) non era una rima. Piuttosto una assonanza.

Vezzi di un lettore onnivoro, che insieme a Pavana e ai boschi di castagni dell’Appennino, ha ancora nel cuore l’America di Steinbeck, Hemingway e Faulkner, insieme a quella di Kerouac e Dylan e dei poeti della “beat generation”. E che ha riversato, in centinaia di canzoni, un vero e proprio universo letterario: Leopardi e Descartes, Dumas e Cervantes, Borges e Foscolo. E poi Kavafis, Gadda, Machado, Ungaretti, Meneghello, Dickens, Jerome e Woodhouse. Passando per Virgilio, Ariosto, Salgari, D’Annunzio, Pascoli, Carducci, Montale e l’amato Gozzano ricordato nella struggente Incontro (1972) con le “stoviglie color nostalgia”.

Versi e canzoni nei quali hanno trovato spazio anche Villon e i “poeti maledetti”, Joyce ed Eliot insieme alla fantascienza, ai tanti i film e al “mondo sognante e misterioso di Paperino”, quello d’annata, disegnato dall’impareggiabile Carl Barks.

Nelle rime gucciniane, “sussidio mnemonico che allarga la tensione tra le parole”, c’è spazio anche per l’esplorazione di mondi medievali, veri o sognati. Il minimo per chi è “cresciuto fra i saggi ignoranti di montagna/ che sapevano Dante a memoria/ e improvvisavano di poesia”.

La cover di Radici

Registrato a Milano nella primavera del 1972, Radici è il quarto album di Francesco Guccini, autore anche di tutti i testi e delle musiche. In copertina, una foto dei bisnonni di Francesco con dietro i quattro figli, tra i quali il nonno e il prozio, che poi ha cantato in Amerigo.
Così nella Canzone dei dodici mesi (Radici, 1972) tornano le immagini delle formelle del ciclo dei mesi scolpite sulla faccia interna degli stipiti del Duomo di Modena, con la rappresentazione delle stagioni e del lavoro nei campi (“Non so se tutti hanno capito Ottobre la tua grande bellezza:/ Nei tini grassi come pance piene prepari/ mosto e ebbrezza, prepari mosto e ebbrezza…”).
Nel canto alla vita che fugge, quella “mano di tarocchi che non sai mai giocare”, nel mese di marzo, sbuca la citazione nascosta dell’astronomo, filosofo e poeta ʿUmar Khayyām (1048 – 1131): “L’ala del tempo batte troppo in fretta, la guardi è già lontana”.
Nelle strofe dedicate ad aprile, Guccini richiama Geoffrey Chaucer (1340-1400) l’autore dei Canterbury Tales: “Con giorni lunghi al sonno dedicati/ il dolce Aprile viene/quali segreti scoprì in te il poeta/che ti chiamò crudele?”.
Nel quinto mese dell’anno appare l’omaggio a Poliziano: “Ben venga Maggio e il gonfalone amico, ben venga primavera”. E un ideale, gioioso brindisi, levato con la chitarra alla “tenzone” tra il cavaliere Folgòre di San Gimignano e il giullare Cenne dalla Chitarra.
A dicembre, quando “uomini e cose lasciano per terra esili ombre pigre”, sbuca il verso di Eliot che richiama John Donne, debitore a sua volta del fascino dei bestiari medievali: “Nasce Cristo la tigre…”.

Registrato nel primo semestre del 1976 negli studi GRS di Milano, Via Paolo Fabbri 43 è il settimo album di Francesco Guccini

ʿUmar Khayyām riappare “fra krapfen e boiate”, quando “scoppia il mondo fuori porta San Vitale” nella canzone Via Paolo Fabbri 43, il settimo album di Guccini, pubblicato nel 1976 e inserito dalla rivista Rolling Stone nella classifica dei cento dischi italiani più belli di sempre:

Jorge Luis Borges mi ha promesso l’ altra notte
Di parlar personalmente col persiano
Ma il cielo dei poeti è un po’ affollato in questi tempi
Forse avrò un posto da usciere o da scrivano

Dovrò lucidare i suoi specchi
Trascriver quartine a Kayyam
Ma un lauro da genio minore
Per me, sul suo onore… non mancherà.

Fascinazioni medievali erano già comparse in Asia (1970), “terra di meraviglie, terra di grazie e mali/di mitici animali da bestiari” insieme alle avventure di Marco Polo e alle leggende del Prete Gianni.

Suggestioni letterarie che torneranno 42 anni dopo ne L’ultima Thule (2012) insieme alle sirene, agli unicorni, ai mostri e agli animali rari, come l’anfesibena, il favoloso serpente della Libia con due teste in ciascuno delle due estremità del corpo, ricordato anche da Dante Alighieri (Inferno, XXIV, 87).

Dell’album Metropolis (1981), Guccini dice “Lo intitolai Metropolis perché parlava di città, ma non di città qualunque: Bisanzio, Venezia, Bologna, Milano, ovvero centri e metropoli con una storia e un’alta valenza simbolica” (Un altro giorno è andato, Francesco Guccini si racconta a Massimo Cotto, Firenze, Giunti Editore, 1999)

Ma è Bisanzio (1981) la più “medievale” tra le canzoni di Guccini. Città simbolo, confine tra l’Europa e l’Asia, frontiera tra due epoche, due civiltà e due diversi modi di pensare. Una capitale del dubbio, dello smarrimento dell’uomo, tra un passato sospeso sulla leggenda e un presente incomprensibile e gravido di incertezze. Il protagonista è un alter ego di Guccini: Filemazio, “amico della conoscenza”: un “protomedico, matematico e astronomo”, “forse saggio”. Interroga il cielo notturno, astri che ha conosciuto in altri oroscopi ma che ora non vede più, perché il cielo si è mosso e nemmeno le stelle possono più guidare l’uomo. Filemazio è “ridotto come un cieco a brancicare”. Ogni vaticinio appare impossibile.

Francesco Guccini nel 1972 (foto: Wikimedia commons, pubblico dominio)

Niente sembra più certo: “Che importa a questo mare essere azzurro o verde?”. I due colori richiamano ai partiti fra loro rivali, dei Verdi e degli Azzurri, nati nell’Ippodromo di Costantinopoli protagonisti nel 532 della rivolta di Nika contro le riforme volute da Giustiniano. Il grande mare che lambisce due continenti è indifferente agli schieramenti e agli odi di parte. Filemazio è travolto dall’incertezza. Bisanzio è cambiata. Chi sono i Romani? Chi sono i Greci? Guccini cita la fonte di Procopio di Cesarea (490-565), implacabile fustigatore di Teodora, l’attrice diventata basilissa:

Città assurda, città strana di questo imperatore sposo di puttana,
di plebi smisurate, labirinti ed empietà,
di barbari che forse sanno già la verità,
di filosofi e di eteree, sospesa tra due mondi, e tra due ere….

Allora “Bisanzio è forse solo un simbolo insondabile/segreto e ambiguo, come questa vita“.

Filemazio, confuso tra la vita e la morte, si copre il capo con il mantello e si addormenta.

Bisanzio capitale di ogni memoria, tornerà nel sogno di un ritorno anche in Vorrei, la canzone del 1996 inserita nell’album D’amore, di morte e di altre sciocchezze: versi scritti per Raffaella Zuccari, la compagna di vita che Guccini ha sposato nel 2011 a Mondolfo, in provincia di Pesaro:

Vedere di nuovo Istanbul o Barcellona
O il mare di una remota spiaggia cubana
O un greppe dell’Appennino dove risuona
Fra gli alberi un’usata e semplice tramontana.

Viaggi nella memoria, “sogni senza tempo, le impressioni di un momento”.

Nel suo primo 45 giri, Un altro giorno è andato, pubblicato nel 1968, Francesco Guccini scrive: “Negli angoli di casa cerchi il mondo,/ Nei libri e nei poeti cerchi te”. Una promessa mantenuta.

In Incontro, una delle sue canzoni più malinconiche, emerge un verso: “Cara amica il tempo prende, il tempo dà…”. Tutto passa. Ma suoni e parole rimangono nella memoria collettiva.

È il destino della grande letteratura. Fossero pure canzonette. Allora Francesco ha ragione quando, da appassionato lettore, ripete: “Cervantes è morto da tempo ma Don Chisciotte cavalca ancora”.

 

Federico Fioravanti

Bibliografia:
Gabriella Fenocchio, Canzoni, Bompiani, 2018
Marco Aime, Tra i castagni dell’Appennino. Conversazioni con Francesco Guccini, Utet, 2016
Paolo Jachia, Francesco Guccini. 40 anni di storie, romanzi, canzoni, Editori Riuniti, 2002
Massimo Cotto, Un altro giorno è andato, Giunti Editore, 1999