Un selfie medievale. Esibito con orgoglio, per siglare con la propria firma e un autoritratto un lavoro fatto bene.
L’immagine spunta nella pagina iniziale di un salterio composto nel 1190 nell’Abbazia dei Santi Ulrich e Afra di Augusta, in Germania.
L’autrice è Claricia, una giovane donna che lavorò a molte miniature di una raccolta di salmi che oggi è conservata nel Walters Art Museum di Baltimora, nello stato americano del Maryland. Non sono tanti i miniatori medievali che hanno lasciato ai posteri la propria immagine.
È rarissimo che lo abbia fatto una donna. Ma il gesto certifica quanto un artista, già quasi all’alba del Duecento fosse consapevole della qualità e dell’importanza del suo lavoro.
Alla fine del XII secolo nel convento di Augusta vivevano molte suore benedettine. Ma Claricia, con ogni probabilità, non aveva preso i voti.
L’abbigliamento e anche la posa con la quale si ritrasse nella pagina miniata, fanno pensare piuttosto che fosse una copista laica che lavorava, comunque con un ruolo importante, nello scriptorium della grande abbazia.
La posa è languida, serena e orgogliosa allo stesso tempo: Claricia ha miniato se stessa nella “gamba” di una Q maiuscola: i lunghi capelli sono sciolti sulle spalle, separati da due trecce. La testa è piegata con grazia. Le ampie maniche del vestito ci confermano che viveva lontano dal convento. Le braccia, tenute in alto, sembrano quasi sorreggere la lettera che dà inizio al testo e quindi a tutta l’opera.
La parola salterio in greco antico vuol dire cetra (ψαλτήριον). E anche il termine latino cristiano psalterium indica il “canto con accompagnamento di cetra”. Hanno lo stesso nome pure gli strumenti a corda con cui si accompagnavano i salmi.
Per associazione, con la medesima parola nel linguaggio biblico-liturgico viene definito il testo contenente i 150 salmi biblici, organizzati e distribuiti nei giorni della settimana secondo le ore canoniche.
A partire dal VI e VII secolo, prima in Irlanda e poi in tutto il continente europeo, i salteri divennero testi indipendenti dal corpo biblico e poi manoscritti a sé stanti. Furono tra i tipi di codici miniati più diffusi, pari per numero solo ai libri del Vangelo. E dalla fine del secolo XI inclusero anche un calendario, i cantici dal Vecchio e Nuovo Testamento, le litanie dei santi e altri testi oggetto di devozione.
Le copie monastiche erano sobrie e decorate con miniature attinenti ai testi. Ma nei secoli furono composti anche numerosi altri salteri, ornati in modo lussuoso e destinati agli uomini facoltosi e ai nobili.
La firma apposta dagli autori attesta la consapevolezza raggiunta dagli artisti, che non erano certo solo dei meri esecutori.
Ne era ben cosciente, ad esempio, nella seconda metà del XII secolo, anche il monaco Eadwin, autore delle miniature di un curioso manoscritto conservato a Cambridge.
L’artista, tra le parole e le immagini, inserì anche un dialogo.
Due frasi ben lontane dalla modestia che doveva accompagnare la vita dei religiosi: “Dice lo scriba: Degli scribi sono il primo e non muore con me la mia gloria. Dillo tu chi son io, o mia scrittura”. Risponde la Scrittura: “Tu sei Eadwin, lo dice la scritta, il dipinto, e la fama ti loda negli anni!”. Così, modestia a parte, il suo nome è giunto fino a noi.
Béatrice Fraenkel, docente di Antropologia della scrittura presso la “Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales” di Parigi ha studiato a lungo le “firme autoritratto”: immagini dei miniatori che hanno voluto tramandare insieme al proprio nome anche i lineamenti dei loro volti. Il modello più antico è l’immagine in ginocchio di Rabano Mauro, erudito carolingio e arcivescovo di Magonza, venerato come santo. Quando era l’abate di Fulda riprodusse la sua immagine sovrapposta al testo di una preghiera. E si firmò con orgoglio: “Io Raban”.
Altri artisti affermano, in calce alle opere, di aver scritto, “decorato” o “dipinto” dei manoscritti.
Gisella, sorella di Carlo Magno fu la badessa di Chelles. Con l’approvazione del fratello imperatore, trasformò l’abbazia che sorgeva nella regione dell’Île-de-France in un importante centro di copiatura, conservazione e restauro di importanti documenti. Molti fogli andarono perduti nel 1226, nel corso di in un terribile incendio. Altri furono dispersi durante la Rivoluzione Francese. Ma la sorella del grande sovrano volle comunque tramandare il suo prezioso lavoro ai posteri: sappiamo così fu aiutata da una dozzina di suore di cui conosciamo i nomi.
Come dimostra il “selfie di Claricia”, le miniaturiste non erano soltanto delle suore. Spesso, alla fine del XIII e XIV secolo, nelle officine secolari di Bologna e Parigi, affiancavano un marito o un padre. Quasi mai però i loro nomi sono passati alla storia.
È giunta fino a noi anche l’identità della eccellente miniaturista che nell’Alto Medioevo lavorò insieme a Emétérius, l’artista che copiò in scrittura visigotica e su bifoli di pergamena di vitello il testo del “Beatus ”, ora conservato nella cattedrale spagnola di Girona.
Il manoscritto miniato, che risale all’anno 975, è firmato da Ende. Una suora che si definisce “pintrix” e insieme “aiutante di Dio” (“Dei aiutrix”) quasi a voler esprimere l’eccezionale importanza del suo lavoro decorativo, che riteneva fosse plasmato direttamente dall’Onnipotente.
Ende, una delle più antiche pittrici nella storia dell’arte occidentale, non dimenticò di aggiungere alla sua firma l’autorevole certificazione del responsabile del suo lavoro: “Frate Emétérius, presbitero”.
Copiare e miniare era un lavoro duro. La maggior parte dei testi trascritti erano di contenuto religioso. Il monaco doveva pregare, riflettere, interpretare e poi scrivere, attraverso sedute lunghe e faticose. Spesso anche in posizioni scomode.
Il miniaturista Emétérius, affidò a un disegno e a un breve testo i suoi lamenti: “Oh torre di Távara, alta torre di pietra, è lassù che, nel primo locale della biblioteca, Emétérius è rimasto seduto, tutto curvo sul suo lavoro durante tre mesi, e che ebbe tutte le sue membra rattrappite dall’uso del calamo”.
In un altro autoritratto, riportato nel Breviario di Olmütz (1140) il miniatore Hildebertus, che si definisce “pictor”, siede abbigliato con vesti sontuose davanti a uno scrittoio sorretto da un leone. Più in basso, curvo su uno sgabello, il suo aiutante Everwinus è concentrato nel realizzare una pittura ornamentale.
Ma intanto, nel tavolino accanto, mentre gli artisti lavorano, un topo insidia il loro pranzo. Hildeberto con il calamo in bilico sull’orecchio e in mano il raschietto usato per correggere e la pietra pomice che serviva a lisciare il foglio, urla contro l’intruso: “Maledetto topo, mi fai sempre arrabbiare, che Dio ti mandi al diavolo!”.
L’arte della scrittura e quella della miniatura conoscevano poche pause. Non c’era molto tempo nemmeno per mangiare. E la fatica si faceva sentire.
Lo ricorda la celebre raccomandazione di un copista del secolo VIII: “Carissimo lettore, prendi il libro soltanto dopo esserti ben lavato le mani, gira i fogli con delicatezza, tieni lontano il dito dalla scrittura, per non sciuparla. Chi non sa scrivere crede che non occorra alcuna fatica. E invece come è penosa l’arte dello scrivere: affatica gli occhi, spezza la schiena; tutte le membra fanno male! Tre dita scrivono, ma è l’intero corpo che soffre!”.
Federico Fioravanti