Nel libro “Il tempo dei lupi. Storia e luoghi di un animale favoloso” (Utet), il medievista Riccardo Rao ricostruisce come la superstizione popolare, la cultura dotta degli uomini di chiesa, ma anche le grandi trasformazioni dell’ambiente abbiano creato il mito del lupo europeo. Un percorso fra storia, letteratura, psicologia e biologia. A partire dalla celebre storia della bambina con il cappuccetto rosso che attorno all’anno Mille viene ghermita da un lupo e condotta nel cuore della foresta…
Il tempo dei lupi. A partire dal XII secolo, soprattutto grazie alla crescita delle città, l’Europa conosce un vero e proprio boom economico. E come adesso, quando c’è una forte crescita economica – basti vedere quanto avviene in paesi emergenti come la Cina e il Brasile – l’ambiente viene messo sotto pressione.
Gli ampi querceti che dominavano le pianure cadono uno a uno sotto i colpi delle asce dei contadini e dei boscaioli.
I disboscamenti sono enormi e questo approccio di “cancellazione” della dimensione naturale inizia a produrre conseguenze ambientali rilevanti, come l’intensificazione dei dilavamenti nelle aree collinari e fluviali.
In quest’epoca vengono anche popolate e messe a coltura aree che, per la loro posizione periferica, erano rimaste per lo più incolte: innanzitutto le zone paludose vicine ai fiumi, ma anche l’alta montagna.
A seguito dei disboscamenti e della crescita economica, i boschi che sopravvivono sono riqualificati per servire alle esigenze alimentari delle società contadine, divenendo coltivati o “domestici”, così come sono indicati in alcuni documenti dell’epoca: boschi disegnati e alterati dall’intervento umano.
Dal XII secolo si ampliano a dismisura le superfici a castagno, una pianta duttile, che fornisce legname e cibo attraverso il suo frutto.
In alcune aree d’Europa, l’economia fondata sull’uso di questa pianta è divenuta così importante da fare parlare di una vera e propria “civiltà del castagno”.
Legnaioli e contadini costruiscono persino case isolate e edifici all’interno del bosco, il cui volto è ormai distante da quello della prima parte del medioevo. Le fiabe ci insegnano che nel bosco si possono fare brutti incontri.
Brutti incontri. Si possono incontrare bestie feroci e malintenzionati. Ci si può perdere e vagare per giorni senza incontrare anima viva. Ma anche in quel caso, prima o poi, ci si imbatterà in qualcuno, un boscaiolo, un cacciatore o un contadino, perché i boschi sono popolati e persino abitati.
Da qualche parte, dove gli alberi si diradano e si apre un prato, c’è infatti una casa: può trattarsi di quella inquietante della strega di Hänsel e Gretel oppure della capanna dei sette nani che accolgono Biancaneve.
Ecco, quest’idea di un bosco dove prima o poi si incontra sempre una presenza umana è in buona misura debitrice alle trasformazioni tardomedievali del paesaggio.
Insomma, nel complesso i boschi si riducono e vengono popolati dagli uomini. I libri propongono spesso una narrazione trionfale dei grandi disboscamenti del XII-XIII secolo, presentandoli in toni epici come una sorta di Far West europeo. Rimangono invece sottotraccia i devastanti effetti prodotti sugli ecosistemi. Per esempio, l’uso intensivo da parte del bestiame delle rive dei fiumi, dove era stata ridotta al minimo la vegetazione di golena, ha ridotto la complessità biologica ed esposto maggiormente alle esondazioni. Ma soprattutto, se guardiamo nel complesso al bosco dobbiamo constatare che i suoi equilibri interni sono stati fortemente compromessi, con una riduzione massiccia delle specie selvatiche.
Con le querce, abbattute dai disboscamenti, se ne sono andate o sono diminuiti in maniera consistente pure i branchi suini allevate allo stato brado. Non stupisce dunque che anche i lupi abbiano cambiato i loro comportamenti.
Finché il paesaggio boschivo era rimasto dominante e la disponibilità di prede ampia, gli attacchi del lupo nei confronti del bestiame erano rimasti contenuti. Del resto, in un’Europa rivestita di boschi, dove i cervi – per quanto eccezionalmente, come ci ricorda Gregorio di Tours – potevano persino entrare in città, il rischio per gli animali allevati dagli uomini era tutto sommato modesto e i maiali semi-selvatici, riuniti in greggi, riuscivano a cavarsela.
Le cose cambiano quando, nel tardo medioevo, i campi coltivati avanzano, spazzando boschi e incolti.
La grande stagione dei disboscamenti ha costituito uno degli attacchi più incisivi alle risorse ambientali. Ma questo nuovo modo di concepire la natura, in cui l’uomo si pone come il padrone, ha avuto conseguenze anche per il protagonista di questa storia, cambiando per sempre la vita del lupo europeo. La forte compressione dei boschi da un lato e dall’altro il loro utilizzo intensivo lo ha stanato dal suo habitat, sottraendogli le risorse di cui necessita. Lo ha indotto in stato di stress, privandolo di spazi sicuri e riducendo le sue prede.
Le abitudini del lupo. Il lupo si è dovuto abituare a uscire dal bosco, per cercare altrove il suo nutrimento, vicino alle case degli uomini, nelle stalle e dove riposano le greggi di pecore, di cui c’è una nuova disponibilità.
Infatti, un’altra trasformazione di quest’epoca consiste nell’enorme incremento dell’allevamento ovino, che si muove sulle strade della transumanza, verso gli alpeggi d’estate e giù in pianura d’inverno.
Non è un caso che le testimonianze degli attacchi dei lupi si concentrino in quest’epoca proprio in zone che hanno un pronunciato sviluppo della pastorizia ovina, come le Prealpi comasche e bergamasche, che l’industria laniera aveva trasformato in valli di pecore: alcuni testi agiografici del XIII secolo ricordano il miracoloso intervento di sant’Alessandro, san Defendente e santa Grata a favore delle popolazioni locali, terrorizzate dalle aggressioni dei lupi.
Per questa ragione, ancora nel XIV secolo, le comunità dell’alta Val Brembana ogni anno si recavano alla cattedrale di Bergamo per offrire tome di formaggio in cambio dell’avvenuta liberazione dai lupi: quasi come se i santi – o quantomeno il vescovo e i canonici della cattedrale – dovessero nutrire particolare riguardo per il bestiame delle valli, se volevano mangiarne i formaggi.
Ogni volta che si prova a fare un confronto tra le colonie lupine dell’epoca e quelle odierne, ci si scontra con l’assenza di dati certi: nei prossimi capitoli ragioneremo più analiticamente sui pochi numeri disponibili.
Tuttavia, anche soltanto in termini generali, immaginiamo che i lupi tardomedievali fossero senz’altro più numerosi di adesso. Le superfici boschive a loro disposizione erano invece forse minori di quelle attuali e comunque molto più intensamente sfruttate dall’uomo, sia per le attività di raccolta della legna, sia per la caccia, che riduceva di molto la disponibilità di ungulati.
Rispetto al periodo precedente, aumentano le testimonianze di attacchi contro l’uomo e ciò non dipende soltanto dal fatto che le fonti scritte del tardo medioevo sono maggiori rispetto a quelle dell’epoca precedente.
Per fare pochi esempi – ma altri ne faremo nelle pagine che seguono – le cronache di area tedesca raccontano di uomini divorati, un numero imprecisato nei pressi di Paderborn nel 1119, più di trenta in Franconia nel 1271 e quaranta fanciulli in Renania, nei dintorni di Wattweiler, l’anno successivo.
Si tratta di cifre considerevoli, che delineerebbero una vera e propria emergenza, anche se questo genere di fonti ha spesso la tendenza a ingigantire – se non ad inventare di sana pianta – la portata delle aggressioni lupine.
Le indicazioni tratte dai documenti d’archivio, almeno per quest’epoca, rimangono complessivamente contenute. Tuttavia, è senz’altro possibile scorgervi un riflesso delle trasformazioni paesaggistiche a cui abbiamo accennato.
Il fatto che a Vicenza nel Duecento si progetti addirittura la costruzione di un muro a protezione del bestiame della città dai lupi mostra, per un verso, come questi ultimi intensifichino la loro frequentazione degli spazi urbanizzati, ma anche che la percezione che gli uomini hanno del pericolo sia innanzitutto legata alla difesa degli animali domestici.
Se i boschi sono ridotti e la selvaggina scarseggia, i lupi si rivolgono con maggiore insistenza agli animali domestici.
Gli attacchi aumentano, ma rimangono comunque episodi complessivamente limitati, che vanno valutati di volta in volta.
Non sempre infatti i lupi appaiono minacciosi: così sui Pirenei due pastori transumanti di Montaillou, a inizio Trecento, di notte lasciano le pecore incustodite nei prati vicini al villaggio «e se ne vanno dove vogliono fino all’alba», poiché, a loro dire, «non c’è da temere i lupi».
Insomma, gli uomini dell’epoca hanno commesso un errore riducendo eccessivamente gli spazi boschivi e incolti.
Senz’altro non sapevano fare diversamente: le conoscenze tecnologiche a loro disposizione consentivano di aumentare la produzione agricola soltanto attraverso l’ampliamento fino allo stremo delle superfici coltivate, piuttosto che incrementarne le rese attraverso un’agricoltura intensiva.
Così facendo, hanno però compromesso gli equilibri ambientali, favorendo comportamenti più aggressivi da parte dei lupi.
Riccardo Rao
“Contro il bosco: i nuovi paesaggi del tardo medioevo” è un capitolo del libro di Riccardo Rao “Il tempo dei lupi. Storia e luoghi di un animale favoloso” (Utet).