Il Volto Santo di Lucca è la più antica scultura lignea dell’Occidente. La conferma è arrivata da una indagine diagnostica voluta dall’Opera del Duomo di Lucca, eseguita con il metodo del Carbonio 14 nella sede fiorentina dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare CHNet – Cultural Heritage Network. Il grandioso crocifisso ligneo (alto 247 cm) risale ad un arco temporale che va dagli ultimi decenni dell’VIII secolo ai primi anni del IX secolo. Non è quindi un’opera della seconda metà del XII secolo,, come si è sempre creduto fino ad oggi. E nemmeno una seconda versione di un più antico Volto Santo, andato per qualche ragione distrutto. L’eclatante notizia arriva in occasione delle celebrazioni per i 950 anni dalla rifondazione della Cattedrale di San Martino. La scienza ha dato ragione a un antico testo, finora creduto leggendario, la Leggenda di Leobino, una narrazione scritta risalente alla metà dell’anno Mille, che ha sempre datato l’arrivo a Lucca del Volto Santo nell’anno 782. Il culto del Volto Santo nel Medioevo si estese a tutta l’Europa: i fedeli e i pellegrini che accorrevano a Lucca ritenevano l’opera acheropita (cioè non realizzata da mano umana), come l’autentica immagine di Cristo. Paolo Giulietti, arcivescovo di Lucca, spiega l’unicità del Volto Santo: “Non è solo uno dei tanti crocifissi di cui è costellata la nostra Italia e la nostra Europa; è una reliquia, cioè un “ricordo vivente” del Cristo crocifisso e risorto. È un memoriale che affonda le sue origini nell’antichità che ha lasciato tracce indelebili nella cultura, nella spiritualità di Lucca e dell’intero continente europeo”.
Un volto misterioso e amatissimo
A Luni convergono le strade provenienti dalla Spagna e dalla terra di San Iacopo. Da Luni c’è un giorno di viaggio per arrivare a Luka. Li c’è una sede vescovile dove si trova quel crocifisso che Nicodemo fece costruire per volere di Dio stesso; esso ha parlato due volte: una volta donò la sua scarpa a un povero, un’altra volta testimoniò in favore di un uomo ingiustamente accusato.
Con queste parole l’abate islandese Nikulas de Munkathvera descrive il passaggio da Lucca nel prezioso memoriale che stilò del suo pellegrinaggio a Gerusalemme intorno al 1154. Lucca aveva un ruolo di primo piano nel sistema viario del XII secolo che metteva in comunicazione tutti i grandi santuari dell’epoca.
Le vie di transito vedevano il passaggio di uomini, merci, armi, culti e cultura, valori materiali e beni immateriali. Il ruolo di Lucca nella compagine medievale e la sua fortuna commerciale erano legati a una simile tessitura viaria che ne faceva l’ultima città prima degli appennini per chi saliva a nord e la prima ad aprire l’accesso alla Tuscia per chi scendeva verso Roma.
Lucca era coinvolta dal fenomeno storico del pellegrinaggio grazie alla presenza di una delle statue-reliquiario più venerate del passato.
Sul suo ruolo di snodo nel collegamento tra il nord e il centro, si innestò il culto del Volto Santo destinato a diventare l’emblema identitario della città nel corso dei secoli. La statua-reliquiario, datata dagli storici dell’arte all’XI secolo, ha una leggenda che l’ha resa famosa ben oltre i confini locali e in un’epoca molto precoce. L’opera si può plausibilmente datare al periodo più fecondo della scultura a Lucca che coincide con l’ascesa economica della città e che vide svilupparsi molteplici cantieri con la presenza di maestranze di diversa origine.
Questa fase si protrasse dalla seconda metà del IX secolo fino alla prima metà del XIII. Quello però che preme sottolineare, dal punto di vista storico istituzionale, non è la discussione sulla cronologia della statua lucchese quanto la forza e la continuità del suo culto che partendo da una radice antica è riuscito a permanere fino all’età contemporanea.
Se vogliamo avere una percezione della fama del culto del Volto Santo, della sua profondità e della sua estensione dobbiamo allargare lo sguardo prendendo in considerazione alcune delle testimonianze che ce ne sono pervenute.
La chevalerie Ogier de Danemarche, un’opera epica risalente all’XI-XII secolo, parla dell’omaggio reso da Carlo Magno all’icona lucchese:
Il re dei franchi si fermò sulla riva / e ascoltò messa a San Martino il grande. / Il Volto di Lucca vi si trovava a quei tempi, / alcuni dicono che c’è ancora. / Nicodemo lo fece a Gerusalemme, / Carlo gli offrì un pallio d’oro lucente.
A questa narrazione si aggiunge la testimonianza di Gugliemo di Malmesbury che nei Gesta Regum Anglorum, del XII secolo, racconta di come il re d’Inghilterra Guglielmo II il Rosso solesse giurare
per Vultum de Luca.
La leggenda ha una struttura relativamente semplice. Il diacono Leobino, presunto autore del testo, racconta come il vescovo Gualfredo si recò a Gerusalemme ed ebbe una visione che lo incoraggiava a cercare la statua scolpita da Nicodemo il cui volto volto era stato realizzata per intervento divino.
La statua era rimasta nascosta in una grotta fino alla visita del vescovo che – Deo gubernante – la caricò su una nave senza equipaggio. L’imbarcazione, arrivata a Luni, risultava inavvicinabile finché il vescovo di Lucca Giovanni, avvertito in sogno, riuscì a salire sulla nave. Vuole la leggenda che la statua fosse anche un reliquiario contenente due ampolle del sangue di Cristo.
Per risolvere la contesa nata tra lucchesi e lunensi circa la proprietà dell’icona, il Volto Santo fu messo su un carro trainato da giovenchi che puntarono verso Lucca. Allora una delle ampolle contenenti la reliquia del sangue venne data in pegno al vescovo di Luni. La leggenda è raffigurata negli affreschi, del XVI secolo, che decorano le la cappella della Villa Buonvisi a Monte San Quirico (Lucca) e rappresentano l’unico ciclo pittorico completo che sia giunto fino a noi su questo tema.
La storia del Volto Santo è stata talmente amata che scrittori, pittori e compositori hanno continuato a reinterpretarla dai tempi antichi fino all’età contemporanea.
Enrico Pea nella raccolta de Il romanzo di Moscardino (1944) dice del Volto Santo:
Lucca non è il suo paese, e non si sa se, un giorno o l’altro, si rimette in piede quella ciabatta per continuare il suo pellegrinaggio interrotto.
Lorenzo Viani fa una operazione parallela letteraria e pittorica descrivendo la benedizione dei morti del mare nel romanzo Il nano e la statua nera (1943) che trova corrispondenza nel quadro dedicato allo stesso struggente soggetto:
Il viandante, che all’alba nel primo giorno di novembre transitasse sulla spiaggia della Lucchesia, vedrebbe delle turbe inginocchiate sotto gli stendardi e il prete benedire lo sterminato cimitero senza tumoli né croci. Sono le figlie, le madri, le vedove, i parenti dei marinai pericolanti nel pelago.
Nel 1961 Ildebrando Pizzetti compose, su libretto di Riccardo Bacchelli, l’opera Il calzare d’argento che fu rappresentata al Teatro alla Scala di Milano. In una copia del libretto si può leggere la dedica autografa di Bacchelli a Raffaello Morghen che fu presidente del prestigioso ISIME, l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo di Roma. Tutto fa pensare che lo scrittore e drammaturgo abbia chiesto consiglio all’accademico.
Così il cerchio si chiude su questo piccolo prezioso dettaglio che rivela come storia, tradizione popolare e creatività possano sempre incontrarsi da qualche parte nella biblioteca degli infiniti labirinti della conoscenza, come sarebbe piaciuto a Borges.
Ilaria Sabbatini
Articolo pubblicato su MedioEvo n. 279, aprile 2020