La storia poco nota del grande emirato che nacque nel cuore della penisola.
Nel libro 915. La battaglia del Garigliano. Cristiani e musulmani nell’Italia medievale (editrice il Mulino), Marco Di Branco indaga su tutta la vicenda delle scorrerie islamiche nell’Italia meridionale nel IX secolo. Una vera e propria guerra di conquista messa in atto dall’élite aghlabita, che sfruttava le divisioni politiche dei suoi nemici.
Tra il giugno e l’agosto del 915 truppe islamiche e una lega di potenze cristiane, si affrontarono nella Battaglia del Garigliano.
Lo scontro avvenne con ogni probabilità nell’area di Suio, attuale frazione di Castelforte (Latina) sulle estreme propaggini dei Monti Aurunci.
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La battaglia del Garigliano fu combattuta tra il giugno e l’agosto del 915 fra truppe islamiche e una lega di potenze cristiane, che riportò sui nemici una vittoria indiscussa, e vide addirittura la partecipazione di un papa e di un celebre stratego bizantino.
Si tratta di una storia scarsamente nota, soprattutto se paragonata a quella della presenza musulmana in Sicilia, a cui il grande arabista Michele Amari dedicò, più di un secolo fa, una monumentale monografia (Amari 1933-1939). Dei musulmani che “fecero l’impresa”, guerreggiando, saccheggiando, imponendo la propria legge e fondando addirittura un grande emirato nel cuore del continente italiano, si sa davvero molto poco.
Ferdinand Gregorovius, autore della celeberrima Storia di Roma nel Medioevo, considera la vittoria della “lega cristiana” sui musulmani del Garigliano
la più gloriosa impresa nazionale degli Italiani nel X secolo
(Gregorovius 1988, 154).
Secondo il grande storico tedesco, essa sarebbe stata il frutto del risveglio del sentimento nazionale che avrebbe incoraggiato e unito gli Italiani a raccogliersi in massa sotto le bandiere di quella che egli non esita a definire come una crociata.
Circa centocinquanta anni dopo la pubblicazione dell’opera di Gregorovius, di questa idea ‒ certamente errata, come si avrà modo di vedere ‒ non resta più alcuna traccia; e tuttavia, con essa si è per così dire inabissata, almeno a livello di consapevolezza storica generale, l’intera vicenda del tentativo di conquista islamica dell’Italia continentale (spesso derubricata all’infimo rango di “incursioni piratesche”), su cui solo in tempi molto recenti si è tornati a riflettere con l’attenzione che il tema richiede.
La storia del tentativo di conquista della Penisola italiana messo in atto dai musulmani nel IX secolo, anche in quanto terreno privilegiato di distorsione ideologica da parte degli storici di ogni epoca, costituisce una fonte continua di sorprese; in tale vicenda, infatti, nulla è come sembra: l’immagine della battaglia del Garigliano che emerge dalle fonti antiche è ben lontana dalla sua rappresentazione moderna, e il racconto delle sue metamorfosi è estremamente interessante anche per l’Italia di oggi.
Un’Italia che deve necessariamente tornare alle storie, secondo la bella e sempre attuale esortazione di Foscolo, per recuperare il senso della sua multiforme identità. Senza vuoti di memoria che somigliano a censure e senza paura di ciò che non è in linea con il pensiero dominante, perché le storie sbagliate sono sempre le più affascinanti.
L’insediamento islamico del Mons Garelianus Tra IX e XI secolo, accanto all’occupazione islamica della Sicilia, si registrano varie forme di insediamento, soprattutto a carattere militare, sul continente italiano. Rispetto ad altri stanziamenti sulla terraferma (ad esempio, i siti di Taranto, Bari e Benevento), quello presso il fiume Garigliano è relativamente tardo, ma anche uno dei più importanti e duraturi. Sebbene nelle fonti arabe non vi sia quasi nessun riferimento alla sua storia, essa, è abbastanza ben documentata dalle fonti latine (su tali fonti vd. ora Di Branco 2019, passim). Poco, invece, sappiamo dei musulmani, dei loro rapporti con la popolazione locale e dei loro legami con il mondo islamico.
La letteratura secondaria li definisce spesso come “pirati”, “bande di Saraceni”, “avventurieri”, “saccheggiatori avidi di preda”. Da quando Michele Amari ha pubblicato la sua monumentale Storia dei Musulmani di Sicilia si è diffusa l’opinione che – a differenza della Sicilia, dove nel IX secolo nacque un durevole emirato – i musulmani siciliani avrebbero fondato in terraferma piccole colonie indipendenti. Fu, quindi, anche lo stanziamento vicino al Garigliano uno di quei campi trincerati senza stretti legami con il resto del mondo islamico?
Rileggendo le fonti latine, ma anche quelle bizantine e arabe, e con uno sguardo volto oltre i confini regionali, si può rilevare un’immagine ben diversa da quella finora nota.
Tutto il sud della Penisola costituisce infatti una larga e mobile zona di confine tra il mondo islamico e non-islamico, una terra da conquistare e in parte, benché solo per breve tempo, conquistata, dove cristiani e musulmani non furono semplicemente nemici, ma spesso si trovarono a collaborare (vd. ora Di Branco, Wolf, 2104a).
Sicilia e Italia meridionale sono insomma terre di taġr, termine arabo che reca in sé l’idea di separazione, di luogo di passaggio e, in generale, di apertura: dal punto di vista geografico e politico esso designa confini di natura precisa, cioè quelle zone della dār al-Islām in contatto con la dār al-ḥarb, cioè con territori designati giuridicamente come zone ostili, oggetto di attacchi musulmani.
In questa visione si inserisce anche l’insediamento al Garigliano. Per tutto il periodo dall’883 fino alla battaglia del Garigliano del 915, vi è stata infatti una stretta collaborazione con Gaeta. Fu soprattutto questo legame a permettere alle truppe musulmane di avere una permanenza relativamente stabile, nonostante i vari tentativi di riconquista. E fu lo stesso legame che permise alla piccola Gaeta, dipendente dal commercio marittimo, di rafforzarsi politicamente e di difendersi contro gli attacchi provenienti soprattutto da Capua o Napoli.
In quel tempo, anche Napoli basava il suo potere in gran parte sull’efficacia dei federati musulmani. Essi provenivano da Agropoli, da dove, all’inizio degli anni ’80 del IX secolo, si era separato un gruppo che poi trovò sede stabile al Garigliano. Si trattava di musulmani provenienti dalla Sicilia che durante i primi attacchi sulla terraferma si erano stanziati in Calabria e Puglia. Da quei luoghi vennero nella zona di Napoli, e per un certo periodo furono ospitati dentro le mura della città e nel porto napoletano. Più tardi si stabilirono fuori città ai piedi del monte Vesuvio per poi ritirarsi ad Agropoli.
I musulmani del Garigliano avevano certamente rapporti con l’emirato aghlabita in Sicilia e Nordafrica. Ad esempio, sappiamo da Erchemperto che essi rafforzarono le truppe aghlabite, quando i Bizantini, verso la fine del IX secolo, erano di nuovo all’offensiva in Calabria. Ciò induce a pensare che l’insediamento al Garigliano non fosse completamente indipendente e che le truppe stanziate al confine tra Gaeta e Capua fossero tutt’altro che bande di pirati che agivano a livello privato (su questa ricostruzione, fondamentale Wolf 2014).
Come che sia, esso fu distrutto nel 915 da una “grande coalizione” cristiana, che sfidò e vinse i musulmani in una battaglia che avrebbe avuto due fasi: dopo uno scontro campale, le truppe musulmane si sarebbero ritirate nella loro roccaforte. A questo punto, il patricius bizantino Nicola Picingli avrebbe fatto costruire un castrum. Ha dunque inizio l’assedio, che sappiamo esser durato tre mesi e che si risolse con la vittoria dell’esercito cristiano.
Le fonti latine danno però della conclusione della vicenda due racconti leggermente diversi: per alcuni autori, si trattò di un successo totale e inequivoco, e il trionfo dei cristiani è suggellato dall’apparizione dei principi degli apostoli; altri, al contrario, danno spazio a una versione dei fatti meno univoca e più ambigua, in cui emerge qui il ruolo fondamentale del duca di Napoli Gregorio e dell’ipata di Gaeta Giovanni, che devono aver intavolato una trattativa con i musulmani, inducendoli ad abbandonare volontariamente l’insediamento. Quest’ultimo viene incendiato dagli stessi occupanti, evidentemente con l’implicita garanzia di aver salva la vita (cfr. Di Branco 2019, 11-20).
Da questo punto di vista, l’insistenza sulla strage compiuta dai cristiani e sui pochissimi musulmani scampati a essa (destinati peraltro a scomparire nei racconti delle fonti più tarde) sembra avere lo scopo di sminuire la portata della trattativa e di nascondere al lettore un fatto fondamentale, cioè che la battaglia del Garigliano (in realtà, soprattutto un assedio) fu vinta dall’esercito alleato solo grazie a un accordo con il nemico musulmano.
D’altra parte, va ricordato che, solo qualche anno prima, l’esercito cristiano, giunto alla Setra con lo scopo di farla finita con i musulmani del Garigliano, era stato messo in fuga da truppe congiunte di Saraceni cum Caietanis (Di Branco 2019, 131-134).
Alla ricerca del monte perduto Strettamente connessa alle ricerche sulla storia e sul significato dell’insediamento musulmano presso il Garigliano è la questione della sua localizzazione.
Sin dal XVII secolo, fra gli studiosi e gli esperti di storia locale si era diffusa la credenza che la fortezza musulmana fosse situata nella zona tra le rovine dell’antica Minturno e la piccola collina che domina la foce del Garigliano, ora nota come Monte d’Argento.
Su queste fragili basi, il Museo Nazionale di Arte Orientale ha condotto, tra il 1985 e il 1998, varie campagne di scavo sul Monte d’Argento dirette dalla dottoressa Paola Torre. Tali indagini hanno definitivamente smentito la teoria di una presenza islamica nell’area in oggetto: nel 1998 la Torre ha preso onestamente atto della completa assenza di elementi archeologici islamici nel sito sottoposto a indagine.
A partire dal 2010 un’équipe dell’Istituto Storico Germanico di Roma, in collaborazione con la Soprintendenza archeologica del Lazio, ha ripreso in mano la documentazione medievale riguardante la storia e la topografia dell’insediamento musulmano presso il Garigliano, giungendo a conclusioni totalmente nuove.
In primo luogo, va sottolineato come nelle fonti medievali relative a tale istallazione, alla parola Garilianus non sia mai associato il termine flumen. In effetti, Garilianus vi appare un toponimo indipendente dal fiume e sembra indicare piuttosto un centro abitato.
Inoltre, va sottolineato da un lato come l’esistenza di un borgo con questo nome sia attestata da vari documenti, dall’altro come il toponimo Garelianus sia strettamente legato all’area di Suio – attuale frazione di Castelforte (LT) posta sulle estreme propaggini dei Monti Aurunci, presso il fiume Garigliano: è noto infatti che, almeno a partire dall’XI secolo i conti di Suio erano denominati anche comites Gareliani, o comites Castri Gareliani (o Castrigariliani), cioè del castello di Suio. È dunque questa la zona su cui è necessario concentrare la nostra attenzione.
Tornando alle nostre fonti, una delle più importanti è l’Antapodosis di Liutprando da Cremona (morto nel 972), che contiene una serie di notizie fondamentali sull’insediamento islamico. In particolare, il cronista parla esplicitamente di una munitio costruita sul mons Garelianus (del tutto diverso dal Garelianus flumen, pure menzionato dall’autore) nella quale gli occupanti avrebbero custodito donne, bambini, prigionieri e suppellettili di ogni tipo (uxores, parvulos, captivos omnemque suppellectilem). Anche nella Chronica Monasterii Casinensis il toponimo Garilianus riferito all’insediamento musulmano appare chiaramente svincolato dal fiume.
Inoltre, nella concisa ma rilevante descrizione dello scontro fra cristiani e musulmani, avvenuto presso Traetto nel 903, è contenuto un ulteriore dato topografico: in effetti, secondo la Chronica, le forze cristiane per attaccare i Saraceni, costruirono un ponte di barche in una zona detta Set(e)ra alla destra delle anse del fiume, in prossimità delle odierne contrade di Parchetto e Fustara, nel comune di SS. Cosma e Damiano.
Una simile scelta sarebbe stata logisticamente del tutto incomprensibile nel caso in cui l’insediamento musulmano fosse installato sulla collina di Traetto (dove sorge l’odierna Minturno) o nella piana antistante alla foce del Garigliano. Essa diviene invece perfettamente plausibile qualora si ipotizzi che i “Saraceni” fossero arroccati nell’area di Suio.
Da quanto visto finora, emergono con chiarezza alcuni dati incontrovertibili. In primo luogo, vanno del tutto abbandonate le teorie che collocano l’insediamento islamico sul Monte d’Argento o nella pianura presso la foce del fiume. È poi ugualmente da respingere la bizzarra ipotesi di storici locali secondo cui “il colle sulla cui sommità si arroccarono gli Arabi” sarebbe “lo stesso ove oggi è Minturno”. In effetti, quando i musulmani si stabiliscono nell’area, tale colle, almeno a partire dall’839, ospita già il cosiddetto Castrum Leopoli e ciò lo rende del tutto incompatibile con la sede del castrum islamico del mons Garelianus.
Infine, una serie di indizi topografici e toponomastici inducono a prendere in considerazione come plausibile luogo dell’insediamento musulmano l’area circostante gli odierni centri di Suio e Castelforte.
A quanto già esposto in precedenza, vanno aggiunti due elementi di sicuro interesse: nell’area di Suio si trovava infatti un importantissimo terminale commerciale, un porto fluviale, che fungeva da centro di smistamento delle merci provenienti dal Tirreno e dirette verso Montecassino. Tale via d‘acqua conobbe particolare fortuna a partire dall’epoca dell’abate Desiderio, ma era certamente già attiva anche nel periodo precedente.
A questo punto, la rilevanza strategica di un eventuale insediamento di altura nell’area di Suio-Castelforte appare molto più chiara: esso infatti avrebbe tra l’altro posto sotto il proprio controllo il porto di Suio e tutte le attività commerciali del Garigliano (per fonti e bibliografia sulla questione della localizzazione dell’insediamento presso il Garigliano, vd. Di Branco, Wolf, Matullo 2013 e Di Branco 2019, 141-166).
Il paradigma della scorreria Come è noto, il carattere apparentemente estemporaneo delle prime conquiste islamiche ha portato alcuni studiosi contemporanei a porre l’accento sui fattori incidentali che le caratterizzano: il movimento non avrebbe avuto alcuna coerenza e non avrebbe obbedito a principî dettati da un’autorità centrale, ma sarebbe consistito essenzialmente in una serie di razzie accidentalmente coronate dal successo; l’idea di una conquista pianificata sarebbe stata dunque una sorta di mito inventato dagli storici e dai tradizionisti musulmani almeno un secolo dopo gli eventi in questione.
In realtà è ormai provato che la conquista fu organizzata ideologicamente e strategicamente dal potere centrale (cioè dai cosiddetti “califfi ben guidati”) e che anche quelli che potrebbero sembrare solo piccoli raids tribali erano in realtà accuratamente pianificati dall’élite del nuovo stato islamico secondo una ben precisa strategia.
Analogamente, una consolidata e autorevole tradizione di studi che risale in parte al magistero di Michele Amari, ma che si è soprattutto affermata nell’opera di studiosi quali Nicola Cilento e Francesco Gabrieli (vd. ad es. Cilento 19712 e Gabrieli 1989), interpreta le vicende della presenza islamica in Italia centro-meridionale solo come incursioni, infiltrazioni che si insinuano nelle terre del mondo cristiano.
Peraltro, il mancato consolidamento di un dominio musulmano nell’area ha impedito la nascita di un dibattito storiografico simile a quello concernente le grandi conquiste del VII secolo e ha favorito invece la liquidazione dei tentativi di espansione araba nel continente italiano come fenomeno marginale, da inquadrare utilizzando esclusivamente le categorie interpretative della razzia e del saccheggio.
Recentemente, la questione è stata riaperta da un saggio di Federico Marazzi (Marazzi 2007): l’elemento assolutamente innovativo e condivisibile del suo intervento è la critica al paradigma della scorreria e l’affermazione dell’esigenza di tornare ad occuparsi del tema della presenza arabo-islamica nel Meridione d’Italia soffermandosi sul problema della strategia araba di penetrazione nella penisola e sulle sue finalità.
Si rende dunque necessaria una nuova scansione delle principali fasi della presenza islamica in Italia che valorizzi il più possibile i pochi ma rilevanti dati desumibili dalle fonti arabe, al fine di ricostruire il quadro storico complessivo ‒ non solo italiano ma anche mediterraneo ‒ in cui esse vengono a collocarsi.
In tale prospettiva, un punto decisivo è costituito dalle vicende relative ai rapporti tra i musulmani e i principati longobardi del meridione italiano, i quali, insieme ai possedimenti bizantini, per tutto il corso del IX secolo furono interessati da incursioni e occupazioni islamiche. Tali vicende, come vedremo subito, evidenziano da parte islamica una strategia particolarmente raffinata, in cui allo scontro militare si giustappongono un’abile azione diplomatica e una fitta trama di alleanze con le potenze dell’area in oggetto.
Tutta la vicenda delle scorrerie islamiche nell’Italia meridionale del IX secolo fu dunque una vera e propria guerra di conquista messa in atto dall’élite aghlabita, tentando di sfruttare le divisioni politiche presenti all’interno della Penisola.
Su queste divisioni molto si diffonde Michele Amari
con l’animo di chi trasferisce nel passato le ansie patriottiche dei suoi giorni
(Amari 1933, 517. La bella definizione dell’attitudine amariana è in Musca, 19672, 148).
E tuttavia, come sempre accade, le cose possono essere viste anche da una prospettiva diversa: proprio le “miserande divisioni” che dilaniavano l’Italia costituiscono infatti una delle cause della conquista mancata da parte dei musulmani.
In effetti, la presenza di un gran numero di entità politiche fortemente militarizzate e installate in centri fortificati, strategicamente ben collocati ed estremamente difficili da espugnare, in un clima di permanente chiamata alle armi, è una caratteristica quasi del tutto assente nei contesti delle grandi conquiste islamiche; ed essa ‒ insieme agli sconvolgimenti interni al mondo islamico tra IX e X secolo, con la caduta degli Aghlabiti e il sorgere dei Fatimidi ‒ ha certamente giocato un ruolo fondamentale nel frenare e respingere l’avanzata dei musulmani nel continente italiano (vd. Di Branco, Wolf 2014b).
D’altra parte, proprio la vicenda dell’insediamento islamico del Garigliano, con tutti i suoi risvolti politici e diplomatici, in cui emerge in maniera assolutamente evidente l’uso dell’elemento religioso in chiave polemica e propagandistica, mostra come sia da respingere con forza la lettura che vede i conflitti in atto nell’Italia del IX secolo tra Bizantini, Franchi, Longobardi e Aghlabiti, quali conflitti di tipo “nazionale”, e come, di conseguenza, non abbia senso ‒ se non dal punto di vista ideologico ‒ interpretare la battaglia del Garigliano quale gloriosa impresa nazionale degli Italiani.
E tuttavia, sarebbe ugualmente ideologico e sbagliato sottovalutare il tentativo islamico di occupazione della Penisola, derubricandolo a “incursioni” o “atti di pirateria”, solo per il fatto che esso si risolse in un fallimento, giacché le storie degli uomini vinti, delle disfatte e delle strade interrotte sono altrettanto istruttive di quelle delle imprese coronate dal successo. E ancora più aberrante e ipocrita sarebbe voler occultare la realtà di simili conflitti in nome di una malintesa correttezza politica, tesa a porre unicamente l’accento sugli scambi economici e culturali fra Occidente e Islām.
All’opposto, vien fatto di chiedersi se, alla radice dell’islamofobia che caratterizza tanta parte della società italiana non possa avere in qualche misura contribuito il metuus Saracenicus diffuso per secoli sulle nostre coste: la paura preferita, come è stata efficacemente definita (Scarlini 2005).
Certo è che le ragioni della convivenza non si troveranno in un ecumenismo di maniera, continuamente smentito dai fatti, e non saranno favorite da atteggiamenti sprezzanti nei confronti di chi percepisce gli attuali fenomeni migratori dai paesi musulmani come una minaccia o addirittura una “invasione”.
In questo senso, un racconto onesto della vicenda delle relazioni islamo-cristiane, che, invece di cullarci in un’utopica visione irenica, ne metta in luce gli aspetti positivi, ma anche le violenze e le distruzioni, potrebbe costituire un valido argomento in difesa della storia “bene comune”, più di tanti retorici appelli destinati, giustamente, a cadere nel vuoto.
Marco Di Branco
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Marco Di Branco
La battaglia del Garigliano
Cristiani e musulmani nell’Italia medievale
Il Mulino, 2019
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Riferimenti bibliografici
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