Le flotte di Pisa e Genova si inseguono da due anni nel tratto di mar Tirreno chiuso tra la costa toscana, quella della Sardegna e della Corsica. Il conflitto tra le due Repubbliche si è acceso nel 1282. Entrambe aspirano al controllo della Sardegna e della Corsica e a proteggere le reti commerciali lungo il Mediterraneo. Pisa ha risentito della diminuzione dei commerci di seta e spezie con l’oriente a seguito della costituzione dell’Impero Latino a Costantinopoli, fortemente appoggiato dai genovesi, e cerca nuovi spazi, dovendosi guardare dall’aggressività di Lucca e Firenze. Genova, padrona dell’intera Liguria e protetta dalle montagne, non ha nemici via terra e può dedicarsi al mare.
Il “casus belli” è ricondotto alla decisione di un signorotto della Corsica, Simoncello di Cinarca, il quale volendo sottrarsi al controllo di Genova, si rifugiò a Pisa, chiedendo protezione e divenendo vassallo della repubblica toscana. La Superba non esitò a far valere le proprie ragioni e scatenare il conflitto. In realtà esistevano tanti precedenti da vendicare. Nel 1241 i genovesi erano stati sconfitti dall’esercito pisano e da quello imperiale sotto il comando di Federico II, presso l’isola del Giglio, con 2.000 tra morti e feriti e 4.000 prigionieri condotti poi in catene a Napoli. Le scaramucce davanti alle coste sarde e lungo le rotte verso oriente erano pressoché continue. I genovesi sembravano aver un vantaggio importante: l’uso di carte nautiche molto precise che permettevano di evitare il cabotaggio lungo le coste. Un importante scontro era avvenuto ad aprile del 1284 nelle acque di Sardegna, a Tavolara, tra Enrico de’ Mari, capitano della scorta di un convoglio genovese, e una flottiglia pisana, agli ordini di Guido Zaccia, con la perdita di dieci galee pisane. La sconfitta bruciava e per lavare l’oltraggio Pisa aveva armato 70 galere e due pontoni carichi di macchine da lancio e si era presentata davanti a Genova.
Le forze in campo, navi e armamento All’epoca le due città erano in grado di mettere in mare una trentina di galee e un numero di poco superiore di naviglio d’appoggio. Le navi erano, per la maggior parte, di proprietà di privati cittadini, obbligati a metterle a disposizione per le necessità belliche o ad affittarle. I proprietari tenevano all’integrità delle navi e, quindi, tendevano ad evitare gli scontri, anche in situazioni favorevoli. Nei due anni antecedenti allo scontro, però, le due repubbliche si erano rafforzate e avevano costruito molte imbarcazioni: Genova era in grado di mettere in mare 88 navi, contro le 54 navi pisane già in acqua e reduci da un colpo di mano contro la piazzaforte genovese di Alghero. Nel porto di Pisa, però, erano pronte altre 40 imbarcazioni da guerra.
La nave da guerra principale era la galea, con uno o due alberi con vela latina e rematori (in principio liberi cittadini che servivano ai remi al posto dell’uso delle armi in battaglia e in seguito rematori stipendiati. Solo nel XVI secolo si passò all’uso di schiavi e come pena detentiva) disposti su due ordini con un remo di massimo 8 metri di lunghezza e uno sperone a prua per sfondare la chiglia della nave avversaria. L’equipaggio era di 200 uomini. Navigli minori erano “saettìe”, le “teride” e le “galere con la poppa aperta”, una sorta di mezzo da sbarco. Esistevano anche navi a sola vela, con castelli, torri e macchinari da guerra, come la pisana “Leone della Foresta”, descritta da Ottobono Scriba come “maximam, cum castellis mirificis et instrumentis bellicosis et ingeniis et armatorum multitudine copiosa”. All’epoca dello scontro della Meloria è già in uso la “cocca”, una nave più leggera e manovrabile anche grazie al timone unico a poppa che ha sostituito i due timoni-remi di babordo e tribordo.
Il guerriero del mare è armato con spade, pugnali, daghe corte, coltellacci, mentre per colpire a distanza utilizza frombole e mazzafionde, dardi a mano, archi e balestre. Nei manuali dell’epoca si ricorda a chi combatte per mare il lancio di vasi pieni di pece, zolfo, resina ed olio, da incendiare tramite uno stoppaccino (una sorta di fuoco greco). Le tecniche prevedevano di speronare la nave o di accostare le fiancate e abbordare. In altri casi si cercava di spezzare i remi, per immobilizzare lo scafo, oppure disalberare la nave nemica. Non dovevano mancare frecce a punta larga per squarciare le vele, falci dal lungo manico per tagliare il cordame e le vele, grappini legati a catene e vasi di calce in polvere per accecare i nemici e otri di sapone liquido per rendere scivoloso il ponte. Sulle navi erano caricate ingenti scorte di pietre da lanciare a mano.
La battaglia: le navi si schierano E con 72 galee ben rifornite, il 22 luglio del 1284, il podestà pisano Morosini e il nobile Ugolino della Gherardesca si schierarono davanti al porto di Genova, sfidando i nemici, il quali disponevano di 50 navi da guerra. L’attacco di sorpresa a Genova fu impedito prima da una burrasca che indusse la flotta pisana a rifugiarsi a Bocca d’Arno e poi dall’arrivo di rinforzi per i genovesi. La battaglia non si svolse, perché le navi genovesi del comandante Zaccaria (futuro doge di Genova) vennero avvistate di ritorno da Porto Torres dove si era recato per sostenere le forze genovesi che stavano assediando Sassari. I pisani, in inferiorità numerica, fecero dietrofront e rientrarono in città, inseguiti dai genovesi che arrivarono a schierarsi davanti a Porto Pisano alla foce dell’Arno. I toscani furono tratti in inganno da un sotterfugio, sul numero di galee genovesi, e contando sulla superiorità numerica, decisero di uscire in mare e affrontare il nemico al largo delle secche della Meloria. Repetti, nel suo dizionario, descrive lo scoglio della Meloria come una secca “a cinque miglia di libeccio da Livorno”. Lo scoglio era un avamposto a difesa dello scalo portuale e punto di riferimento per i piloti delle navi dirette a Pisa.
Oberto Doria aveva schierato in prima linea solo 63 galee, altre 30 navi agli ordini di Benedetto Zaccaria, disalberate, erano state tenute in retroguardia. I pisani pensarono a navi appoggio o ausiliarie e si schierarono con una formazione in linea, leggermente incurvata con le estremità più avanzate, lungo oltre 2 chilometri e mezzo, dirigendosi contro la formazione avversaria, disposta in maniera speculare, cosiddetta a falcata o mezzo arco.
I genovesi erano disposti su due linee: il primo di cinquantotto galee e otto panfili, una galea sottile di origine orientale; Oberto Doria, l’ammiraglio genovese, era al centro imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia; a destra le galee della famiglia Spinola e di quattro delle otto “società” o “compagne”, in cui Genova è divisa: Castello, Piazza lunga, Macagnana e San Lorenzo; a sinistra le galee dei Doria e di Porta, Soziglia, Porta Nuova e Borgo. La seconda linea di venti galee, sotto il comando di Benedetto Zaccaria, era composta da navi da guerra o di piccole imbarcazioni e messa in posizione defilata.
I pisani, comandati dal podestà Morosini Podestà e dei suoi luogotenenti Ugolino della Gherardesca e Andreotto Saraceno, erano compatti e disposti allo scontro frontale. Si racconta che mentre l’arcivescovo benediceva la flotta si staccasse la croce d’argento del pastorale. Un cattivo auspicio ignorato con irriverenza dai pisani, i quali dichiararono che bastava il vento per vincere anche senza l’aiuto divino.
Lo scontro Le tecniche delle naumachie, all’epoca, non erano molto raffinate. Le navi si scontravano violentemente l’una contro l’altra, cercando di speronarsi e abbordarsi. L’avvicinamento era preceduto dal lancio di frecce, dardi, giavellotti, a volte fuoco o gesso per occludere la vista al nemico. Catene tirate da una nave all’altra servivano per disalberare il naviglio nemico. Allo scoglio della Meloria le cose non andarono molto diversamente.
Le due flotte si lanciarono l’un contro l’altra e, a mano a mano che la distanza si riduceva, iniziò il lancio di quadrelli scagliati dalle balestre e di frecce dagli archi. Poi si passò ai sassi e alla calce in polvere per accecare il nemico. Furono lanciati anche vasi pieni di una mistura saponosa che rendesse i ponti scivolosi. Alcuni documenti riportano il lancio di proiettili infuocati, ma non è certo se vennero utilizzati. Alla battaglia della Meloria, secondo le cronache, i pisani avevano montato sui ponti delle galee una specie di girandola irta di spade e flagelli, innestati su un perno che veniva fatto ruotare in caso di arrembaggio da uomini posizionati sotto il ponte.
I pisani indossavano le corazze complete, nonostante il caldo estivo. I genovesi avevano scelto giubbe imbottite e potevano contare sul fatto di avere il sole alle spalle. Vi furono anche degli scontri individuali, a modo di singolar tenzone tra cavalieri. Particolarmente cruenta quella che vide la lotta senza quartiere fra la galera del Doria e quella del Morosini. Le navi pisane erano più vecchie e più pesanti e imbarcavano truppe armate con armature complete sotto il sole di agosto. Nel prolungarsi della battaglia i genovesi, muniti di armature ridotte e più leggere, risultarono avvantaggiati.
La battaglia infuriava al centro dello schieramento quando i genovesi, tirati su gli alberi e le vele della squadra tenuta nascosta, poterono aggirare i nemici e colpirli alle spalle piombando sul fianco pisano scoperto. I toscani colti completamente impreparati dalla manovra resistettero con la forza della disperazione fin quando Zaccaria non si avvicinò alla capitana pisana con due galee e stesa tra di esse una catena legata agli alberi, prese in mezzo la nemica, tranciandole l’asta che reggeva lo stendardo. A quella vista, i pisani cercarono scampo in una fuga disordinata: solo 30 navi agli ordini di Ugolino si salvarono (il suo comportamento in battaglia, a causa di alcune manovre poco chiare, fece sorgere il sospetto che fosse un traditore. Accuse che non impedirono ad Ugolino di divenire podestà di Pisa, fino al tragico epilogo della morte di inedia nella torre della Muda, dove venne chiuso con i figli e i nipoti). Trenta galee furono catturate, sette vennero affondate, altrettante si incagliarono nelle secche. Al calar della sera il mare davanti allo scoglio della Meloria era tinto di sangue e ingombro di cadaveri che galleggiavano. Ovunque c’erano remi spezzati, vele strappate, gomene recise e scialuppe rovesciate.
Alla fine dello scontro i pisani contarono diverse migliaia di morti e feriti e circa novemila prigionieri. Furono tutti portati a Genova e tenuti incatenati in una piccola zona fuori delle mura. Erano così numerosi che si diffuse il detto: «Se vuoi vedere Pisa vai a Genova». A migliaia morirono in prigionia, tanto che a Genova il cimitero dove vennero sepolti prese il nome Campo Pisano. I genovesi, però, non avevano la forza di provare la conquista di Pisa, rimasta praticamente indifesa. La grande catena del porto di Pisa venne presa dai genovesi, spezzata e appesa su palazzi e chiese cittadine come monito (fu restituita a Pisa solo dopo l’Unità d’Italia).
Nel corso della battaglia, infine, venne fatto prigioniero Rustichello da Pisa, legato indissolubilmente a Marco Polo e al racconto dei suoi viaggi: Il Milione.
Umberto Maiorca