Sulla Piana dei Merli alla fine di giugno, cresce ancora il bozur, un fiore dal color di porpora che ricorda il sangue versato dagli eroi della Serbia.
I canti popolari tramandarono la leggenda nei secoli: quel fiore spuntò il giorno di San Vito, proprio nel luogo dove il 28 giugno 1389, l’esercito guidato da Lazar Hrebeljanovic, l’ultimo principe serbo, fu massacrato dalle milizie turche del sultano Murad I (1362-1389).
La feroce battaglia segnò la fine della indipendenza del popolo balcanico.
L’evento marchiò in modo indelebile la storia della regione e diede inizio al dominio politico e militare degli ottomani, che durò per cinquecento anni.
Kosovo Polje, il “campo” o la “piana dei merli” si estende nei pressi della città di Pristina e con il tempo, ha dato il nome a tutto il territorio circostante.
Nel 1389 il principe Lazar fu catturato e poi ucciso insieme ai suoi compagni di sventura. Ma come il personaggio dei vangeli di cui porta il nome, risuscitò negli infiniti racconti della rovinosa sconfitta: una ferita della Storia che ha lasciato una traccia indelebile nella memoria collettiva del popolo serbo.
Ami Bouè, pioniere delle ricerche geologiche nei Balcani, nel libro “La Turquie d’Europe” parla di una data spartiacque: per tutti i serbi l’anniversario può essere paragonato alla data della nascita di Cristo. Per centinaia di anni, infatti ogni avvenimento importante, fu accompagnato dalla stessa domanda: “Questo è successo prima o dopo il nostro asservimento?”.
“Il Golgota serbo: Kosovo 1389” è il titolo di un libro sull’argomento dello storico americano Thomas Emmert: nei secoli, la battaglia del Kosovo fu vista come l’origine di tutte le sventure della Serbia.
Lazar, il principe guerriero, fu canonizzato dalla Chiesa ortodossa.
L’epica, alimentata dal ricordo della patria perduta, fu tramandata dalla musica e dalle parole dei guslar, i cantastorie medievali che suonavano la gusla, uno strumento a corda singola con archetto, derivato dalla lira bizantina.
Jovan Skerlić, un famoso critico letterario vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, scrisse: “Come l’incendio di Troia dà luce a tutta l’antichità greca, così la disfatta del Kosovo illumina i canti popolari serbi e la poesia nazionale”.
Nell’intreccio balcanico, la storia e le leggende si mescolano ancora.
Alla metà del Mille i piccoli principati serbi, già convertiti al Cristianesimo, erano vassalli o del “basileus” di Costantinopoli oppure del re d’Ungheria.
Ai loro confini premeva l’impero bulgaro che fino a cento anni prima era uno degli stati più grandi del vecchio continente.
Il primo regno serbo, riconosciuto come indipendente dal papa, nacque nel 1077 a Zeta, in Montenegro.
Poco dopo Stefano Nemanja, gran zupan (principe) della Raska, si emancipò dal vassallaggio di Bisanzio e riunì in un solo stato le diverse entità slave dei Balcani.
Un suo pronipote, Dusan, estese i suoi domini fino al golfo di Corinto e si fece incoronare a Skopje “zar dei serbi e dei greci”. Sognava di conquistare anche Costantinopoli e progettava insieme al pontefice una crociata contro i turchi. Ma nel 1355 morì all’improvviso, forse per avvelenamento. Sotto suo figlio Uros, detto il Debole, il regno si sfaldò. Intanto i turchi, guidati dal sultano Murad I, avevano sconfitto i bizantini e premevano sui Balcani.
Di fronte alla minaccia dell’invasione, Lazar, il più potente principe serbo ancora indipendente, si alleò con Tvrtko Kotromanic, signore della Bosnia, che aveva ricevuto da poco la corona dal re d’Ungheria e si era proclamato sovrano di tutti i popoli serbi.
Lo scontro finale ebbe luogo alla piana dei Merli, oggi Kosovo Polje, nel giorno di San Vito del 1389, che secondo il calendario giuliano cade il 15 giugno e secondo quello gregoriano il 28 giugno.
L’esercito turco contava 40.000 uomini. Tra loro spiccavano i giannizzeri, le “forze nuove”: soldati di professione scelti tra i giovani prigionieri dei turchi, votati al celibato e allevati nella fede musulmana.
I serbi e i bosniaci, tra fanti e cavalieri, erano almeno 25.000.
La ricostruzione storica corregge il mito del ciclo epico serbo: Kosovo Polje non fu la lotta tra la Serbia cristiana e gli infedeli. Al seguito di Lazar c’erano contingenti valacchi, croati, bulgari e albanesi. E numerosi vassalli cristiani rinforzavano anche le truppe di Murad I.
Al mattino, il campo ottomano fu percorso dal dramma: secondo la tradizione serba il sultano morì, pugnalato nella sua tenda dal cavaliere Miloš Obilić, che si era introdotto nell’accampamento nemico. Per i turchi invece Murad I cadde con le armi in pugno.
In ogni caso, suo figlio, Bayezid I, capovolse le sorti dello scontro: “come una folgore” si lanciò sulle truppe serbe, indebolite dal tradimento di Vuk Brankovic, genero del principe Lazar, che abbandonò il campo di battaglia e diventò per sempre “il fellone” descritto nelle innumerevoli canzoni popolari dedicate a quel giorno fatale.
La cavalleria serba fu travolta dalle soverchianti forze nemiche. Lazar fu imprigionato e decapitato davanti al cadavere di Murad I.
La leggenda evoca una storia dal grande valore simbolico: alla vigilia della battaglia un falcone, proveniente da Gerusalemme, volò fino all’accampamento del principe Lazar, con in becco un’allodola. Una metafora di Sant’Elia che portava al condottiero cristiano un messaggio di Dio. Lazar doveva scegliere: poteva vincere e essere sovrano in terra oppure affrontare la sconfitta e avere per sempre la gloria dei cieli.
Consapevole della caducità delle cose terrene, Lazar scelse di morire.
La Serbia visse così il suo destino di paese martire: un sacrificio di sangue per la gloria di Cristo, unito allo struggente rimpianto di un regno perduto, da allora vagheggiato nelle canzoni e negli splendidi affreschi delle chiese medievali.
I poemi popolari sulla battaglia della Piana dei Merli furono riscoperti agli inizi del Novecento, pubblicati nelle scuole e mandati a memoria, insieme alle prime grammatiche. La tradizione orale dei cantastorie, celebrata nella letteratura scritta non solo dai serbi ma da tutti i popoli slavi del sud, divenne lo spartito fondamentale dell’identità nazionale.
Non a caso, in ricordo di una lontana battaglia, si accese anche la miccia della Grande Guerra: Gavrilo Princip, l’attentatore che a Sarajevo uccise l’arciduca Ferdinando, scelse per la sua missione di morte proprio la data del 28 giugno 1914.
I principi albanesi nel 1389 combatterono accanto a Lazar e ai suoi alleati bosniaci e valacchi. Ma per un paradosso della Storia, lo scontro contro gli ottomani, che vide uniti i popoli dei Balcani, oggi è simbolo di una divisione.
La storia recente, ancora avvelenata dalle derive nazionalistiche, è stata a lungo sfregiata da stragi, odi razziali, guerre e “pulizie etniche”.
Oggi la popolazione del Kosovo, secondo un censimento che risale al 2011 è per il 92% albanese, per il 5,3% serba e per il 2,7% di altre etnie. Nel paese, che ha un territorio grande poco più dell’Abruzzo, vivono 1 milione e 800mila persone.
Il più giovane stato d’Europa ha proclamato la sua indipendenza dalla Serbia il 17 febbraio 2008. È stato riconosciuto da 74 stati nel mondo: l’81% dei paesi dell’Unione Europea e l’86% dei membri della Nato.
Ma non dal Vaticano e nemmeno da Russia, Cina, India, Brasile, Spagna, Cipro, Grecia, Slovacchia e Romania.
Federico Fioravanti