Mentre nell’Europa continentale, con il definitivo sgretolamento dell’impero romano d’Occidente, resistettero per poco tempo territori (come il regno di Siagrio) che ancora si riconoscevano nelle idee e nella storia di Roma seppur fossero formalmente sottoposti all’impero romano d’Oriente, è molto interessante approfondire quanto accadeva contemporaneamente oltre Manica.
Com’è noto, la Britannia era entrata in orbita romana a partire dal governo di Claudio e vi era rimasta per circa 400 anni. Nel V secolo, in seguito alle imponenti migrazioni che colpirono l’Europa, l’impero romano vide contrarsi i territori in suo controllo e venne incontro a grosse difficoltà tali da impedire la difesa della propria capitale, saccheggiata più volte dai barbari nel corso del V secolo.
A fronte di queste situazioni, secondo quanto ci riporta Zosimo con il famoso “Rescritto” dell’imperatore Onorio, fu deciso nel 410 di ritirare le ultime legioni romane dalla Britannia per cercare di arginare le scorribande barbariche nella penisola italica.
Privati così della protezione di Roma, i Britanni romanizzati dovettero per forza di cose provvedere alla propria difesa. Tenteremo quindi di indagare in questa sede gli eventi che accaddero tra il 410 e il 550 in Britannia per trovare un fil rouge di continuità romana nella cosiddetta “Dark Age of Britain”.
Come al solito le fonti, seppur confuse e spesso contraddittorie, rappresentano per uno storico il costante punto di partenza.
Il riferimento principale è certamente il contemporaneo lavoro De Conquesto et excidio Britanniae di Gildas, dove si legge che i Britanni risposero al vuoto di potere riorganizzandosi attorno a dei piccoli reguli alla stregua di quanto avveniva in epoca preromana.
Alla stessa maniera essi si frammentarono politicamente in tanti piccoli regni, guidati da signori della guerra locali (duces bellorum) che sfruttavano la loro rete di clientes per crearsi un proprio seguito armato. Di questi piccoli signori, chiamati tyrants (dal latino Tigerni), sappiamo ben poco. Quello che è poco ipotizzabile è che il lascito romano, nei costumi e negli usi, si cancellasse istantaneamente in contemporanea alla partenza delle legioni. In tal senso, le evidenze archeologiche emerse in alcuni studi hanno permesso di supportare questa tesi.
Infatti, sebbene la romanizzazione in Britannia non fosse permeata totalmente in tutti gli strati della popolazione, alcuni ritrovamenti hanno addirittura dimostrato come, sino al VI/VII secolo, le costruzioni romane non solo fossero ancora in uso, ma anche implementate e migliorate.
Sebbene è noto che alcuni forti romani, specialmente nel nord dell’isola, venissero abbandonati gradualmente attorno al 400, non tutte le truppe lasciarono l’isola.
A sparigliare poi ancora di più le carte in tavola, nonostante la discordanza cronologica delle fonti a nostra disposizione, sappiamo che attorno alla metà del V secolo la Britannia subì le invasioni di Sassoni, Iuti e Angli dal Mar Baltico, mentre dall’Irlanda si intensificarono le scorribande degli Scoti.
L’adventus Saxonum, sebbene la presenza in Britannia di mercenari sassoni fosse già confermata a partire dal II/III secolo inquadrati come ausiliari nell’esercito romano, suddivise l’isola in due: ad est i sassoni/angli e i romani-britanni ad ovest, nell’odierno Galles e Cornovaglia.
Le fonti coeve motivano l’arrivo dei Sassoni con l’invito da parte di Vortigern (429), mai nominato da Gildas al contrario di Nennio e Beda, per respingere le invasioni dei Pitti e degli Scoti. Gildas appunto non nominò mai direttamente Vortigern, specificando che la scelta di chiamare i Sassoni fu di un consiglio dei capi delle civitates britanne, a testimonianza dell’esistenza di una sorta di federazione tribale già in uso presso le popolazioni di stirpe celtica.
Altre fonti al contrario chiamarono Vortigern “re dei Britanni” e lo indicarono come unico responsabile dell’arrivo dei Sassoni. La pressione di questi popoli, come citato da Gildas, divenne via via sempre più insostenibile per i Britanni, tanto che, all’incirca nel 450, questi chiesero l’intervento romano, in particolare al generale Ezio, con quello che attraverso l’opera di Beda è passato alla storia come il gemitus Britannorum.
Tuttavia, la richiesta d’aiuto passò inascoltata a causa delle enormi difficoltà in cui versava l’impero d’Occidente che a malapena riusciva a gestire i territori della Gallia e dell’Italia.
Ma cosa o chi era rimasto dei romani in Britannia? Dalle fonti emerge chiaramente il nome di Ambrosio Aureliano, l’ultimo dei romani come venne definito da Gildas, come colui che guidò alla vittoria i Britanni contro i Sassoni (alcuni ipotizzano che fosse lui il generale vittorioso a Badon Hill), mentre Nennio ne sottolineava la discendenza da imperatori e consoli romani.
Attraverso documenti e interpretazioni tenteremo in questa sede basandosi sulle fonti, di sottolineare una sorta di continuità tra età antica e quella medievale dell’elemento romano proprio tramite questo personaggio.
Tornando al contesto storico, è possibile osservare come Nennio, nella sua Historia Brittonum, indicasse come Vortigern detenesse il controllo della Britannia governando “degli attacchi romani e del timore di Ambrosio”. Difficilmente dunque, poteva riferirsi allo stesso Ambrosio Aureliano del Monte Badon (496) perché troppo avanti con gli anni. Poteva essere tuttavia un suo parente, discendente di imperatori della gens Aurelia (Marco Aurelio per l’appunto), che operava in quel periodo?
Nella lista di consoli troviamo un Quinto Aurelio Simmaco, collega di Ezio nel 446 e, sempre riferibile allo stesso periodo, è stato ritrovato un quantitativo ingente di monete detto “Hoxne Treasure” di epoca romana con l’incisione più ricorrente riferita ad un Aurelius Ursicinus. Che fosse parente di Ambrosio Aureliano o del Quinto Aurelio di cui sopra, dalle fonti non è possibile trarre alcuna evidenza.
D’altro canto, è una coincidenza storicamente curiosa che siano state ritrovate, proprio nella prima metà del V secolo, tracce evidenti della gens Aurelia in Britannia.
Cosa furono poi quegli attacchi romani di cui aveva paura Vortigern? Dopo l’abbandono della Britannia di Onorio, Roma tentò di ripristinare una sorta di dominio nell’isola attraverso l’opera di Germano di Auxerre prima, vescovo soldato che operò nell’isola nel 429 e nel 447, e con il suo omonimo vescovo di Man tra il 460 e il 470.
In questo coacervo di notizie semi leggendarie, emerge dunque dalle fonti un passaggio di consegne tra Vortigern e Ambrosio, il cui nome gallese è Embreis Guletic, che divenne re delle terre occidentali di Britannia.
Dove localizzare questo regno? La maggior parte delle ipotesi propende nel territorio circostante la fortezza di Dynas Emrys, che riporta attualmente il nome gallese di Ambrosio Aureliano, un forte di epoca post romana dove secondo la narrazione di Nennio un giovane Merlino/Ambrosio predisse la vittoria del drago rosso (Galles) sul drago bianco (Sassoni).
Il regno del Powys gallese dunque, sarebbe il centro dell’azione di Ambrosio che culminerà con la vittoria dei romano-britanni sui Sassoni del 496.
Sembra evidente che, in questo caso, storia e leggenda si intersechino mescolandosi; di certo però, il legame tra Ambrosio Aureliano e Roma venne ribadito anche da Gildas e Goffredo di Monmouth, che raccolsero questa tradizione.
Secondo quest’ultimo, Ambrosio sarebbe stato figlio di Costantino II (Custennin, erede di una tradizione di usurpatori già presenti nella Britannia romana con quel nome) e di una fanciulla romana, fratello di Uther Pendragon (il cui nome significa letteralmente Grande Capo Drago).
Qui si innesta il mito arturiano, dove Uther, fratello di Ambrosio Aureliano, avrebbe poi generato il famoso Re Artù. L’elemento romano dunque, secondo questa ricostruzione ipotetica, sarebbe rimasto conservato nella linea dinastica che, dalla gens Aurelia sino al leggendario re Artù, avrebbe attraversato il passaggio tra la Britannia romana e alto medievale dando vita al ciclo arturiano.
In conclusione poi, altre due note di colore: parlando di re suoi contemporanei, Gildas si riferisce a Maglocunus del Gwynedd (497-549) e Cuneglasus (VI secolo) del Powys come eredi detentori rispettivamente del titolo di Drago (che compare nello stemma del regno) e dell’orso.
Il padre di Cuneglasus del Powys, secondo le liste di re gallesi, sarebbe Owain Ddangtwin, ovvero il detentore del titolo di Orso originale.
Secondo alcuni studiosi sarebbe questo leggendario re gallese, proveniente dal territorio originario di maggior concentrazione dei romano-britanni, sarebbe il re Artù storico. Questi due titoli, nella loro etimologia gallese, sono molto importanti; se per il drago è stata trovata correlazione con Uther e la profezia di Ambrosio (prima fratello e poi consigliere di Uther con il nome di Merlino secondo Nennio), l’orso (in gallese “Arth”) indicherebbe proprio una correlazione col titolo di Artù.
Questo dunque non dovrebbe essere considerato un nome ma un titolo che, come usanza britanna (ma anche romana, basti pensare alla continuità storica del titolo di Cesare o Augusto) andava in eredità ai re gallesi e, se vogliamo, di sangue romano.
E proprio Artù fu, secondo alcuni studiosi, a guidare la vittoria dei romano- britanni a Badon Hill, spostando appunto la data della battaglia attorno ai primi vent’anni del VI secolo.
A conferma dell’esistenza di un enclave romano britannica separata dagli altri territori sottoposti al controllo anglosassone, sono stati condotti diversi studi genetici che confermano come queste zone abbiano una sequenza genetica molto diversa rispetto alle popolazioni dell’est inglese, che manifestano a loro volta tratti germanici e nordici.
In tutto questo, trova quindi fondamento l’affermazione di Ward-Perkins che nel suo capolavoro “La caduta di Roma e la fine della civiltà” afferma come gli ultimi romani a cedere agli Anglosassoni furono i gallesi che nel 1282 si arresero agli inglesi di Edoardo II. La continuità del mito di Roma è certificata dalla Storia: Carlo Magno, i re Prussiani, gli Zar di Russia e lo stesso fascismo tentarono, tutti a loro modo, di far rivivere e rinnovare i fasti di Roma Antica.
Riuscire quindi ad innestare il mito di Artù sul tronco dell’impero romano sarebbe, incontrovertibilmente, un modo per asserire la continuità di Roma nella storia.
Sebbene i limiti di questa ricostruzione siano molti e ben noti a chi mastica di storia, alla fine di questa breve digressione sembra chiaro che non si possa più rinchiudere la storia in cesure convenzionali e rigide che non tengono conto della fluidità delle dinamiche sociali e storiche del genere umano.
Il mondo romano non scomparve improvvisamente ma al contrario, contaminandosi con le nuove popolazioni che giunsero in Europa tra il IV e il VII secolo, determinò la nascita di quegli embrioni di stati nazionali che caratterizzano le epoche storiche successive.
Roma e il suo lascito dunque, continuano a vivere nella storia del genere umano e credo che, diffondendone ancora oggi gli echi tramite lo studio di eventi tanto lontani, ognuno di noi contribuisca a darvi continuità.
Paolo Pietro Giannetti
Bibliografia
Fonti:
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Sitografia:
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