La disfatta di Hattin

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La battaglia di Hattin, da un manoscritto del XV secoloIl destino di Gerusalemme è segnato. Come quello dei regni cristiani d’Outremer. Dopo la conquista del 1099 e quasi cento anni di scaramucce, due personaggi di grande valore, pur operanti in schieramenti opposti, e tre avventurieri causarono la disfatta cristiana in Oriente.

I primi due sono Baldovino IV di Gerusalemme, il re-cavaliere adolescente e lebbroso, e Salah ad Din, colui che restituì la Città santa all’Islam.

Il terzetto degli altri personaggi è invece costituito da Guido da Lusignano, Gerardo di Ridefort e Rinaldo (o Reginaldo) di Châtillon.

Il 25 novembre del 1177 a Mont Gisard il giovane Baldovino, aiutato dai Templari, dagli Ospitalieri e dal fratello Baliano di Ibelin (difensore della Città Santa dopo la disfatta di Hattin) sconfisse Saladino grazie ad una violenta carica di cavalleria pesante (un cuneo di acciaio, ferro e cavalli) che ruppe il fronte musulmano, mettendo a rischio la stessa vita del sultano. Una vittoria che ritardò di dieci anni i piani di riconquista di Gerusalemme. Il ritorno della Città Santa nelle mani musulmane, infatti, era solo una questione di tempo. Saladino aveva dalla sua le immense ricchezze e riserve di Siria ed Egitto, di contro Baldovino poteva contare sulle sempre minori risorse di Terrasanta e quelle scarsissime di un Occidente alle prese con le lotte tra Impero, Papato e Comuni. Alla sua morte anche il fronte politico interno si ruppe.

La situazione politica e militare Le difese dei regni cristiani si basavano su una ragnatela di fortezze «quasi inespugnabili se non per fame, tradimento o laboriosi e costosi lavori d’assedio». I castelli e i forti presidiavano i punti nevralgici delle vie di comunicazione in Terrasanta e i pozzi (principale risorsa umana e militare del territorio) erano costruiti a breve distanza l’uno dall’altro, in modo che le guarnigioni fossero in grado di portare soccorso velocemente in caso di attacco o ospitare le carovane e dare rifugio ai pellegrini.

Alla morte di Baldovino IV, il 16 marzo del 1185, le divisioni dei cristiani e gli intrighi politici, che minavano la forza dei regni cristiani e mostravano tutta la loro debolezza, portarono all’elezione di Guido di Lusignano, marito di Sibilla, sorella di Baldovino, a scapito di Raimondo di Antochia, grazie anche all’appoggio del gran maestro Templare Gerardo di Ridefort e all’avventuriero Rinaldo di Châtillon «che osava attaccare anche le carovane dei musulmani dirette verso la Mecca, sollevando la riprovazione degli stessi cristiani».

Il regno di Gerusalemme era conteso tra i signori locali, discendenti dei cavalieri della prima crociata, come Raimondo di Tripoli e Baliano di Ibelin, e i nuovi cavalieri, giunti dall’Europa con la speranza di acquisire terre e potere, come Rinaldo Châtillon e Guido di Lusignano. I primi conoscevano la debolezza politica e militare dei possedimenti di Outremer e la necessità di mantenere diviso il fronte interno musulmano e di non dare battaglia in campo aperto per poter sperare di sopravvivere. Lo stesso Saladino sapeva di non aver speranza di poter prendere castelli come Acri, Kerak e Tiro. Gli “uomini nuovi”, invece, vedevano nella guerra l’unico modo di appagare il proprio desiderio di gloria e di mettere alla prova il proprio ardimento. «Coraggio, forza, capacità di maneggiare le armi, una fierezza atta ad incutere timore e soggezione nonché spirito combattivo, diventarono le componenti fondamentali del carattere aristocratico, quale fu luminosamente esemplificato da crociati dello stampo di Goffredo di Buglione e Rinaldo di Châtillon». Il primo, però, fu coraggioso, accorto ed efficiente, il secondo solo temerario e venne ucciso, dopo la battaglia di Hattin, da Saladino anche perché, contravvenendo al codice cavalleresco, aveva attaccato la carovana della sorella del sultano.

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Scena del film “Le crociate” (Kingdom of Heaven), diretto nel 2005 da Ridley Scott.

La preparazione alla battaglia Il 24 giugno del 1187 Salah ad Din, dopo aver radunato un esercito di 45.000 uomini (12mila i cavalieri pesanti e 10mila arcieri a cavallo), si mosse alla volta di Tiberiade, governata dalla moglie di Raimondo di Tolosa. Il 2 luglio la città è assediata e presa. La guarnigione si rinchiude nella cittadella. Guido da Lusignano, disdegnando i consigli dei vari signori cristiani di Terrasanta, raduna 18.000 fanti, 4.000 ausiliari e 1.200 cavalieri e si mette in marcia per cercare di intercettare le truppe del sultano. Si tratta della quasi totalità delle forze cristiane di Outremer.

Il re di Gerusalemme, fidandosi di Rinaldo di Châtillon e Gerardo di Ridefort, marcia verso Tiberiade, non sapendo che la trappola è già scattata. Saladino ha finto di attaccare la fortezza sul lago, contro la quale poco avrebbe potuto, per spingere i cristiani a combattere in campo aperto, dopo aver chiuso tutti i pozzi e le sorgenti lungo il percorso.

Il 1 maggio del 1187 Gerardo di Ridefort si era già reso protagonista, in negativo, dello scontro alle fonti di Cresson, dove aveva voluto attaccare una forza musulmana di 7.000 guerrieri a cavallo guidati da Keukburi, con appena 140 cavalieri e 300 fanti. In quell’occasione era stato sconsigliato da Roger des Moulins, maestro degli Ospitalieri, e dal maresciallo dei Templari Giacomo di Mailly, ma «Gerard lo accusò di vigliaccheria e di avere troppo a cuore la sua bella testa bionda per rischiare di perderla», al che il maresciallo gli rispose «che da uomo coraggioso sarebbe morto in battaglia, mentre lui, Gerard, sarebbe fuggito come un traditore – e la sua previsione si rivelò corretta».

Ridefort attaccò con i cavalieri senza attendere la fanteria, che non prese parte allo scontro, finì accerchiato e scampò miracolosamente alla morte insieme con due confratelli e «agì in modo analogo e altrettanto disastroso nella battaglia ben più significativa e catastrofica di Hattin, pochi mesi dopo». Quel giorno Roger De Moulins e Giacomo di Mailly morirono combattendo.

Raimondo III di Tripoli.

Raimondo III di Tripoli.

Il consiglio di guerra del re di Gerusalemme è chiamato ad affrontare la situazione. Raimondo da Tripoli si oppone ad una missione di soccorso alla città di Tiberiade e alla moglie, la contessa Eschiva. Raimondo sa che Saladino non le avrebbe mai fatto del male e che una città perduta si può sempre riconquistare, ma sa anche che l’assedio di Tiberiade è solo l’esca per mettere in trappola l’esercito cristiano. Per cui «Raimondo III raccomanda la prudenza e consiglia di attendere che l’esercito islamico si disperda, come nel 1183. La sua opinione prevale, ma Gerardo di Ridefort, gran maestro dei Templari e nemico personale di Raimondo, fa notare al re Guido che Raimondo, mosso da ambizione, mira con quel consiglio solo al disonore del sovrano. Già accusato di pusillanimità nel 1183 per aver rifiutato di dar battaglia a Saladino, stavolta Guido di Lusignano ritiene di dover agire senza attendere».

Raimondo III consigliava di attirare Saladino davanti alla fortezza di Acri per impegnarlo in una battaglia campale «e far strage di loro, così che il Saladino, dopo una schiacciante sconfitta, abbandoni la Terrasanta per mai più farvi ritorno» con la sicurezza di aver le spalle protette dai rinforzi del castello, mentre «nel deserto, il Saladino è avvantaggiato, può manovrare più velocemente, e le sue forze avrebbero il sopravvento».

L’avventuriero salito al trono più per gli intrighi che per il valore, parte per «una campagna di guerra condotta in un deserto dove la mancanza d’acqua era assoluta. Sfuggendo alla ragione e al buon senso, egli prese una decisione che avrebbe portato i crociati a sicura disfatta». Nella decisione pesò molto l’opinione del gran maestro Ridefort, temuto da Guido da Lusignano per l’aiuto che gli aveva dato nell’ascesa al trono. A nulla valse il racconto di un servo del re che aveva visto «un’aquila che stringeva sette dardi negli artigli sorvolare il campo cristiano. E la udì gridare: “Bada a te, Gerusalemme!”».

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L’area geografica del teatro della battaglia di Hattin.

La piana di Baruf e i corni di Hattin Le truppe cristiane lasciano i freschi giardini di Saffuriya, il 3 luglio, e marciano lungo i polverosi e aridi sentieri di Terrasanta per coprire i 15 chilometri che li separano da Tiberiade, molestati dai continui attacchi alla retroguardia e ai fianchi da parte della cavalleria leggera musulmana e dalla polvere che rende secca l’aria e le gole di uomini e animali. «I cavalieri al centro della colonna dei crociati erano costretti a procedere alla velocità dei soldati a piedi che formavano una camicia protettiva tutt’intorno a loro e che, con le casacche di maglia di ferro e le giubbe di cuoio, proteggevano i loro cavalli dalle frecce saracene. Ma dal calore del sole non c’era via di scampo».

L’esercito crociato si trova nella piana di Baruf, a pochi chilometri da Tiberiade, sempre sotto attacco da parte degli arcieri a cavallo di Saladino e percorre un sentiero segnato da piccoli avvallamenti e uadi, corsi d’acqua che hanno modellato la roccia nel tempo, ma prosciugati dalla stagione arida. «Avventurarvisi nelle ore calde del giorno avrebbe significato sfidare la morte, per un esercito di cavalieri con corazza e cotta d’arme». Il caldo e la sete li tormentano più dei nemici, ma «i crociati continuavano ad avanzare con la forza della disperazione, persuasi di poter giungere alle fresche acque del lago» che avevano visto tanti miracoli di Gesù.

La lunga colonna è composta solo da soldati, non ci sono carriagi e scorte d’acqua, in genere trainati dai buoi, perché avrebbero rallentato la marcia. Guido e i suoi volevano la battaglia. Ogni soldato ha la sua borraccia. Dopo sei ore di marcia e di continue soste sotto il sole per permettere ai balestrieri di rintuzzare gli attacchi musulmani e per ricompattare le file di cavalieri e pedoni, però, le scorte d’acqua sono esaurite. Le fonti più vicine sono quelle di Turan, con una lunga deviazione a nord lontano da Tiberiade, oppure ad Hattin.

La battaglia di Hattin in una miniatura.

La battaglia di Hattin in una miniatura.

Guido di Lusignano decide per quest’ultima fonte. Un gruppo di cavalieri si lancia in avanscoperta, subito inseguito da un drappello di cavalieri musulmani. Raimondo percepisce il pericolo che la colonna venga tagliata in due e si prepara ad attaccare, quando un messaggero del re gli comunica che bisogna fermarsi e montare il campo: «Senz’acqua Raimondo sapeva che questa sarebbe stata una condanna a morte e disse al re: “Ahimè, ahimè! Signore Dio, la guerra è finita. Siamo traditi a morte e la terra è perduta”». Saladino «dispose che venissero allestite carovane di cammelli carichi di acqua attinta dal lago di Tiberiade, e che gli otri d’acqua venissero posizionati vicino al campo. Essi furono svuotati davanti agli occhi dei cristiani, col risultato di far soffrire a loro e ai loro cavalli tormenti perfino maggiori per via della sete» si legge nella cronaca del cosiddetto “Continuatore di Guglielmo di Tiro”.

La notte viene passata in armi e all’alba la colonna si rimette in marcia, infastidita dal fumo dei roghi di sterpaglie accesi dagli uomini di Saladino sulle alture che sovrastano il percorso. Dal campo saraceno giunge un messaggero: «Sire, io vengo a portare un’offerta di pace da parte del sultano. Egli pone come condizione che voi abbandoniate i vostri sogni di conquista e ve ne torniate donde veniste, oltremare, per non fare più ritorno».

Colto da un senso di presagio, Guido da Lusignano rispose convocando Saladino «dinanzi al Tribunale del Cielo», ma non sarebbe stato quello il giorno per nessuno dei due. Molti cavalli sono morti per la sete o per le frecce saracene (che non mancano visto che Saladino ha predisposto un ingente rifornimento con una carovana di settanta dromedari).

I cavalieri proseguono a fianco dei pedoni. Alcuni iniziano ad arrendersi, altri cercano di fuggire scalando le colline intorno alla pista. I cavalieri Bald de Fortuna, Raymundus Buccus e Laodicius de Thabaria si consegnano ai musulmani e condotti davanti a Saladino gli dissero: «Sire cosa aspettate? Piombategli addosso poiché sono già morti».

Schema tattico Hattin

Schema tattico della battaglia.

È quasi mezzogiorno quando il comandante dell’avanguardia, Raimondo di Tolosa, conscio ormai del pericolo di essere annientati, decide di rompere gli indugi, raduna i suoi cavalieri e attacca frontalmente l’esercito musulmano alle pendici dell’altura dove si tramandava che Gesù avesse pronunciato il Discorso delle beatitudini. Una carica violenta con la quale infligge e subisce gravi perdite, ma che permette di rompere l’accerchiamento e riparare a Tiro con numerosi cavalieri: «il fragore delle armi saliva fino al cielo. I corpi degli uccisi coprivano il terreno pietroso ai piedi del monte».

Baliano di Ibelin, in retroguardia, tenta un’identica operazione e porta a termine la manovra di sganciamento di buona parte dei suoi soldati. I due condottieri si girano di sella per fare segno al grosso dell’armata di infilarsi nell’apertura creata a prezzo di molte perdite, ma il grosso dell’esercito non si muove.

Raimondo III punta contro il contingente musulmano guidato da Taqi al-Din, il quale «decise che la prudenza era il lato migliore del valore e aprì un varco tra i suoi ranghi per far passare i Crociati». Guido di Lusignano e i suoi, invece, rimangono intrappolati nella sacca e si arroccano sulle due alture vicine, conosciute come i corni di Hattin.

La morsa di Saladino si stringe su quel che resta dell’esercito di Gerusalemme. I cavalieri e i fanti piantano le lance nel terreno, ergendo un muro di ferro e legno contro il quale s’infrangono destrieri e cavalieri saraceni. La muraglia corazzata regge il primo e anche il secondo urto. I musulmani avanzano a piedi e la battaglia si trasforma in un corpo a corpo violento, chi cade viene schiacciato. Gli scudi vanno in frantumi, le spade si scheggiano infrangendo elmi e lacerando i corsetti di cuoio. I Templari e gli Ospitalieri tengono il fronte a loro affidato respingendo ogni tentativo saraceno. Le armi pesanti dei Crociati incutevano timore e mietevano vittime tra gli arabi armati alla leggera.

Il fronte di battaglia era molto stretto e favoriva, pur distrutti dalla sete e dal sole, i fanti e i cavalieri cristiani sulla difensiva, chiusi nelle armature e dietro gli scudi. I saraceni tempestavano di frecce i nemici, ma non riuscivano a sfondare. Tanto che la linea musulmana inizia a dare segni di cedimento. Soprattutto quando i cavalieri cristiani effettuano due cariche, disperate, arrivando fin quasi alle tende del sultano, ma senza acqua e stanchi la resistenza si affievolisce e, lentamente,vengono sopraffatti dai musulmani.

Sono diverse ore che si combatte e nel primo pomeriggio, quando le difese non esistono più e lo scontro si accende ovunque ci sia un gruppo di cristiani che non si arrende, le forze saracene puntano alla tenda rossa di Guido da Lusignano, circondata e colpita dai turcomanni. Il vescovo Rufino di Acri e Bernardo di Lidda vengono uccisi e la Vera Croce catturata dal comandante Taqi al-Din (nipote di Saladino). In molti si arrendono. Guido da Lusignano è stravolto, si siede per terra, davanti alla sua tenda e attende di essere catturato.

Modern interpretation of Saladin accepting the surrender of Guy of Lusignan

Interpretazione artistica moderna della resa di Guy di Lusignano a Saladino.

Il cronista Ibn al-Athìr riporta le parole del figlio di Saladino, al-Afdal: «Guardavo mio padre e vedevo che era agitato, pallido e che teneva lo scudo» e quando vede cedere il muro di scudi crociato prosegue «Li abbiamo sconfitti». Saladino, però, lo zittisce: «Silenzio, non li avremo battuti sin quando non sarà caduta la tenda del re». Intorno alle tre del pomeriggio la tenda rossa cade. La battaglia è finita. Al massacro scampano circa 3.000 uomini, tra cui i cavalieri di Raimondo di Tripoli e la retroguardia al comando di Baliano d’Ibelin.

Saladino si porta fin davanti alla tenda del re, scende da cavallo, stende il suo tappeto di preghiera sul terreno insanguinato e prega Allah. Poi fa condurre i nobili prigionieri nella sua tenda, dissetandoli e trattandoli bene, tranne che Rinaldo di Châtillon. Guido di Lusignano («i re non si uccidono a vicenda») infatti, dopo aver bevuto dalla coppa la porse a Rinaldo, ma Saladino si adirò: «Non mi garba che diate da bere a costui nella mia coppa. Questo maledetto non può bere senza il mio permesso nella mia tenda, e se osa farlo la sua vita non sarà risparmiata». Rinaldo bevve fino in fondo e rifiutò l’offerta di aver salva la vita in cambio della conversione all’Islam.

Saladino lo decapitò personalmente e la sua testa fu issata su una picca e «portata in giro per tutto il paese come simbolo della vittoria di Allah sugli infedeli». Poi fece imprigionare e vendere come schiavi i fanti (il numero fu talmente elevato da far crollare i prezzi del mercato di Damasco) e ordinò l’uccisione di tutti i Templari e gli Ospitalieri catturati.

Nessuna pietà per i turcopoli, ausiliari arabi al soldo dei crociati. Senza più difensori città e fortezze cristiane si arresero nel giro di pochi mesi a Salah ad Din. «I cristiani dell’Oriente avevano già subito dei disastri in passato e i loro re e principi erano già stati catturati altre volte, ma allora erano stati fatti prigionieri da piccoli signorotti in cerca di modesti profitti.

Sui Corni di Hattin venne annientato il più grosso esercito che il regno avesse mai radunato, venne perduta la Vera Croce, e il vincitore era il capo dell’intero mondo musulmano».

Umberto Maiorca