Si racconta che il 14 febbraio dell’anno 496, giorno di San Valentino, papa Gelasio avesse celebrato una messa per tutte le coppie di fidanzati di Roma che si sarebbero sposate entro l’anno.
Al termine della messa gli innamorati avevano sfilato di fronte al papa che aveva benedetto la loro unione donando ad ogni coppia una rosa rossa, ripetendo così il gesto compiuto da Valentino 250 anni prima e dando origine alla festa degli innamorati.
Si racconta, appunto. Ma non è vero: perché in realtà quella dell’istituzione della festa di San Valentino non è altro che una leggenda nella leggenda.
Se storicamente non è provata alcuna particolare predilezione del vescovo martire per le coppie di innamorati, è vero inoltre che la sostituzione della festa pagana dei Lupercali con quella cristiana di San Valentino è anch’essa in gran parte di matrice leggendaria.
La cerimonia descritta dalla leggenda – detta “Festa dalla promessa” – nella realtà è stata introdotta dai frati carmelitani (che custodiscono la tomba del santo a Terni) a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del XX secolo nella basilica ternana. Luogo dove ogni anno il vescovo di Terni, successore di San Valentino, celebra una messa per le coppie di fidanzati che si sposeranno entro l’anno.
La cerimonia è effettivamente approdata in Vaticano solo il 14 febbraio 2014, quando il presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia Vincenzo Paglia, ex vescovo di Terni, ha organizzato in Piazza San Pietro l’incontro dei fidanzati con papa Francesco.
La verità è che la festa di San Valentino non è mai stata – e non lo è nemmeno oggi – una solennità della Chiesa, tanto che in quell’occasione lo stesso papa Francesco aveva ammesso privatamente di non sapere chi fosse san Valentino e di aver sempre associato il giorno degli innamorati ad una ricorrenza squisitamente consumistica.
Di fatto ancora oggi la festa di San Valentino viene celebrata in chiave religiosa solo nelle città di cui il martire è patrono. A Bussolengo, in provincia di Verona, ad esempio, il culto di Valentino risale al 1300 e non ha niente a che fare con gli innamorati. Qui il santo vescovo è considerato piuttosto il patrono del bestiame, a causa di un miracolo avvenuto nel 1700. A Vico del Gargano è invece protettore degli agrumeti e a Monselice in Veneto protegge dall’epilessia. In Germania e in Russia Valentino è venerato come santo taumaturgo, e in effetti l’unico aspetto che emerge dalla sua Passio (redatta nel VI secolo e unico testo ufficiale sulla sua vita) è la capacità di sanare da terribili malattie, mentre secondo un’altra tradizione (testimoniata da un quadro realizzato nel 1575 da Jacopo dal Ponte e custodito oggi al Museo civico di Bassano del Grappa) Valentino avrebbe ridato la vista a santa Lucilla, cieca dall’età di due anni, convertendo poi al cristianesimo sia lei che il padre Nemesio.
Di fatto, fino al XVI secolo non ci sono testimonianze di un legame tra la festa di San Valentino e quella degli innamorati.
Il primo ad associare il giorno di San Valentino con l’amore romantico viene considerato Geoffry Chaucer nel Parlamento degli uccelli, dove afferma che Riccardo II d’Inghilterra lo aveva scelto per sancire il fidanzamento con Anna di Boemia. In realtà, però, i due si sono fidanzati il 2 maggio, giorno in cui la Chiesa celebra un altro san Valentino: il primo vescovo di Genova, martirizzato nel 325. In compenso il 14 febbraio 1400 a Parigi sarebbe stato fondato “L’alto tribunale dell’Amore” istituzione ispirata ai principi dell’amor cortese, mentre al 1415 risale il primo “valentino” della storia: a scriverlo Carlo d’Orléans, detenuto nella Torre di Londra dopo la sconfitta nella battaglia di Agincourt, che si rivolse a sua moglie con le parole: “Je suis desja d’amour tanné, ma tres doulce Valentinée….”. Anche in questo caso, però, si tratterebbe semplicemente del nome della donna, senza reali riferimenti al Patrono dell’Amore.
Quel che è certo, però, è che nel 1602 in Inghilterra il giorno di San Valentino è già diventato la festa degli innamorati, tanto che William Shakespeare, nell’Amleto inserisce una filastrocca che suona così:
“Sarà domani San Valentino,
ci leveremo di buon mattino,
alla finestra tua busserò,
la Valentina tua diventerò.
Allora egli si alzò,
delle sue robe tutto si vestì,
la porta della camera le aprì,
ed ella non più vergine ne uscì”
Nello stesso periodo fioriscono, sempre in ambiente anglosassone, le leggende che legano il vescovo di Terni agli innamorati, a cominciare da quella secondo cui Valentino, udendo una coppia litigare, era riuscito a riconciliarla donando ai due una rosa. Leggende che dall’Inghilterra e l’America percorrono tutto il mondo fino ad arrivare nella terra stessa del santo.
Dimenticato dai ternani per quasi mille anni, il culto di Valentino torna in Umbria il 21 giugno 1605, quando il vescovo Giovanni Antonio Onorati avvia la campagna di scavi sotto l’antica basilica riuscendo a ritrovare la tomba del martire.
Nei secoli successivi per influsso del mondo anglosassone, anche a Terni si diffonde il culto di Valentino come patrono degli innamorati e arrivano nuove leggende a giustificarlo: è addirittura del Novecento quella più celebre che vede il vescovo benedire l’unione di un soldato romano e una giovane cristiana morti insieme come Romeo e Giulietta; leggenda scaturita dal ritrovamento, nel 1909, di una sepoltura bisoma nella necropoli delle acciaierie.
Agli anni ’90 del Novecento risale invece la vetrata della basilica che immortala il dono della rosa ai due innamorati.
Come, perché e quando – dunque – il giorno di San Valentino si è trasformato nella Festa dell’amore?
Secondo la tradizione, in Francia e Inghilterra si riteneva che la data coincidesse con l’inizio dell’accoppiamento degli uccelli. Come il Natale, la festa di San Valentino sarebbe quindi una festa solstiziale, legata al risveglio della natura, a quella “promessa di primavera” che comincia a farsi sentire nel mese di febbraio. Non ci sono dubbi, però, sul legame tra la festa di San Valentino e i lupercali, la solennità romana dedicata alla fertilità e celebrata dal 13 al 15 febbraio.
Luperco era un’antica divinità rurale della mitologia romana, invocata a protezione della fertilità. Inizialmente identificato con il lupo sacro a Marte, viene successivamente considerato un epiteto di Fauno (faunus lupercus), per essere infine assimilato al dio Pan. Secondo la tradizione proteggeva il bestiame ovino e caprino dall’attacco dei lupi e veniva celebrato in febbraio, il periodo in cui i lupi si avvicinavano più minacciosi ai greggi.
Il santuario di Luperco si trova in una grotta i piedi del colle Palatino: era lì, secondo la leggenda, che Faustolo aveva trovato i gemelli Romolo e Remo. I suoi sacerdoti erano divisi in due sodalizi noti come i Luperci Quintili ed i Luperci Fabiani, secondo la tradizione rispettivamente derivanti dai compagni di Romolo e Remo.
Durante i rituali di purificazione venivano offerti in sacrificio dei caproni ed un cane, poi venivano iniziati due giovani Luperci: seminudi, con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia, venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle capre appena sacrificate. Il sangue veniva quindi asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra, al che i due ragazzi dovevano ridere, nel corso di una cerimonia che è stata interpretata come un atto di morte e rinascita. I luperci restavano seminudi, vestiti solo con le pelli delle capre che formavano anche una sorta di fruste. Le vestali offrivano focacce fatte con grano delle prime spighe della passata mietitura. Dopo un pasto abbondante, tutti i luperci, compresi i due nuovi iniziati, dovevano correre intorno al colle saltando e colpendo con le fruste sia il suolo per favorirne la fertilità sia chiunque incontrassero, e in particolare le donne, le quali per ottenere la fecondità offrivano volontariamente il proprio ventre alla frusta.
Lo stravagante rituale ha fatto supporre che i Lupercali siano stati rituali di “fecondazione simbolica”, risalenti forse addirittura ad un’epoca antecedente la fondazione di Roma e che fossero parenti lontani di quello che sarebbe poi diventato il Carnevale.
I suoi rituali di carattere espiatorio e propiziatorio si caratterizzerebbero anche per il fatto che la festa cadeva a fine anno (per i romani l’anno iniziativa a marzo).
Naturale che la Chiesa guardasse con forte sospetto questi rituali pagani dal valore ancestrale. Ma non era la sola a mostrarsi ostile: lo stesso Cicerone giudicò “selvagge” queste “riunioni”. E Valerio Massimo scrisse in proposito che si trattava di feste “promosse dall’ilarità e dall’eccesso di vino”.
È proprio qui che torna dunque in gioco papa Gelasio: eletto al soglio nel 492, il prete di origine africana si era dimostrato subito tra i pontefici più intraprendenti e determinati a far valere il suo ruolo di capo della chiesa universale.
Dopo essersi scontrato con il patriarca di Costantinopoli, Gelasio aveva teorizzato il primato del potere spirituale da lui rappresentato su quello temporale dell’imperatore e dei re Goti, arrivando a dichiarare nulli i decreti imperiali in conflitto con la disposizioni della Sede Apostolica. Si era anche battuto a lungo contro l’eresia ariana, alla cui diffusione i barbari stavano dando un fortissimo impulso. Aveva poi fatto costruire tre chiese nuove a Roma, ordinato 32 preti e 67 vescovi.
Sembra che Andromaco, principe del Senato, avesse recuperato la festa dei Lupercali – già caduta – con finalità propiziatorie a causa di una pestilenza che aveva decimato la città. Gelasio, furibondo, aveva proibito a tutti i cristiani di prendere parte ai rituali. Poi aveva scritto una lettera ad Andromaco rimproverandolo per la partecipazione dei cristiani al selvaggio rituale.
Da oltre un secolo il cristianesimo è la religione di Stato e tutti i riti di origine pagana sono stati aboliti: nel 393 sant’Ambrogio è riuscito a ottenere dall’imperatore Teodosio persino la chiusura delle Olimpiadi, mettendo fine ad una storia sportiva durata più di mille anni.
Deposto nel 476 l’ultimo imperatore Romolo Augustolo, papa Gelasio è rimasto di fatto l’unica autorità rimasta a Roma e riesce quindi con relativa facilità ad ottenere l’abolizione definitiva della festa, giudicata profondamente immorale.
È Cesare Baronio a collocare l’abolizione dei Lupercali nel 496. E per una curiosa coincidenza, proprio Baronio è il maestro di Giovanni Antonio Onorati, il vescovo di Terni che nel 1605 promuove la campagna di scavi che riporta alla luce la tomba di San Valentino.
In realtà, però, Gelasio si limita ad abolire la festività romana, senza sostituirla con un’altra festa, anche se in molti gli attribuiscono – in opposizione ai Lupercali – l’istituzione non della festa di San Valentino quanto piuttosto della Candelora, che nei secoli successivi sarà fissata al 2 febbraio.
Esattamente come avvenuto con i Saturnali, le cui usanze sono sopravvissute all’abolizione della festa pagana trasformandosi poi di fatto nelle tradizioni natalizie cristiane, i Lupercali continuano a mantenere, nei popoli occidentali, la valenza di festa della fertilità, finendo per identificarsi con il nome del santo festeggiato il 14 febbraio (giorno centrale del triduo festivo), e poi passare – attraverso la mediazione della cultura anglosassone – dalla celebrazione della fertilità a quella del matrimonio fino all’amore di coppia e al romanticismo tout-court – e ritornare al punto di partenza riassumendo una valenza religiosa fino a mutare l’identità stessa del santo, che da martire e taumaturgo oggi si ritrova inconsapevolmente ad assumere il ruolo di protettore degli innamorati.
Arnaldo Casali
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