L’eremo di santa Maria dell’Eremita di Piedipaterno, fu costruito vicino a una sorgente in fondo al Fosso di Roccagelli, in prossimità delle cascate del torrente. Nascosto nella piccola valle dominata da un imponente scoglio roccioso con anfratti e grotte, permetteva di vivere l’esperienza eremitica in un ambiente simile a quelli frequentati dai Padri del deserto.
Intorno al IX secolo, accanto alle celle, fu edificato un edificio sacro cui si accedeva anche dall’alto attraverso uno scosceso e impervio pendio.
L’insediamento divenne in breve tempo uno dei centri religiosi più importanti della Valnerina, al pari di Sant’Eutizio, San Pietro in Valle o Castel San Felice di Narco.
Agli inizi dell’anno Mille l’eremo fu trasformato in monastero dai monaci benedettini che, un secolo dopo, la concessero alla congregazione di Vallombrosa. Il complesso monastico sorge alla destra del Nera, in un contesto ambientale da togliere il respiro ancora oggi, defilato rispetto all’antica strada per Norcia.
I viaggiatori e i pellegrini che passavano di là, potevano trovare rifugio nell’ospizio annesso al monastero. Oggi il silenzio di un tempo è interrotto dal rumore delle auto che sfrecciano vicine, ignare della grande importanza che nel Medioevo aveva avuto l’abbazia di Santa Maria de Ugonis, questo era il suo titolo, comunemente detta “la Romita”.
Nel Quattrocento, quando è identificata come “cenobio de Paterno”, divenne un santuario mariano a seguito di un evento prodigioso.
Si racconta, infatti, che un’aquila, in volo sui campi ricavati nell’emiciclo roccioso della valle, ghermì il bimbo in fasce che una contadina al lavoro aveva deposto accanto a sé. La donna, rivoltasi in soccorso alla Madonna della Romita, un’antica statua lignea che era nella chiesa, le promise in cambio della salvezza del bambino la donazione di tutti i suoi beni. Come per miracolo l’aquila tornò indietro, facendo ampi giri, i cui segni sarebbero ancora impressi nelle rocce, e riportò il bambino alla madre. Si narra che a questo punto la donna, pronta a firmare l’atto di donazione, ebbe un ripensamento, ma la penna con cui il notaio stava vergando il documento s’immobilizzò e riprese a funzionare solo quando la donna confermò la sua volontà.
La storiella, probabilmente, faceva parte dell’armamentario affabulatorio dei questuanti girovaghi che, per attirare l’attenzione e ottenere una buona elemosina, decantavano visioni, miracoli e celesti inviti del simulacro mariano.
I quaestores elemosinarum erano dei laici “oblati del monastero o semplicemente prezzolati” che giravano di paese in paese per racimolare elemosine utili alle celebrazioni delle messe nel loro oratorio, oppure per acquistare derrate e generi alimentari per il monastero. Non sempre questa raccolta era fatta da persone affidabili, a volte si trattava di mestieranti, tanto che nell’area di Spoleto l’attività aveva dato vita a una vera e propria professione, per lo più a servizio degli ospedali, detta dei cerretani, in seguito indicante una vasta gamma di mendicanti e imbroglioni travestiti con abiti monacali.
Nel 1484 Teseo Pini, vicario generale di Spoleto, scrisse un volumetto Speculum cerretamorum denunciando queste pratiche. Nel 1487 il beato Bernardino da Feltre, predicatore dell’osservanza francescana, si recò a Spoleto per disinfestare la città e il suburbio dai cerretani. La vita monastica fu interrotta nel 1653 quando, a causa della soppressione del monastero decretata dal Papa Innocenzo X, i monaci furono costretti ad abbandonare l’abbazia. La decisione non fu gradita dalle comunità di Paterno e Meggiano tanto che nel 1656 si rivolsero a papa Alessandro VII per far tornare i padri vallombrosani, ma la supplica non fu accolta.
Dalla visita pastorale di Carlo Giacinto Lascaris avvenuta nel 1712 apprendiamo che il monastero era allora quasi crollato, probabilmente a causa degli eventi sismici del 1703.
Lo stato di abbandono e d’incuria proseguì negli anni seguenti fino alla decisione, probabilmente dopo l’unità d’Italia, di demolire una buona parte della navata della chiesa per ampliare il cimitero.
La parte residua dell’antica chiesa romanica, raro esempio di un edificio con tiburio all’incrocio della navata con il transetto, fu adattata a cappella cimiteriale innalzando il pavimento fino all’altezza della quota del presbiterio, in origine molto più in alto rispetto al piano dell’aula.
L’intervento occultò definitivamente l’ingresso che dalla navata conduceva alla cripta sottostante, interessante esempio di ambiente ipogeo a croce greca, con volte a botte e quattro bracci muniti di altari, nella quale sono ancora visibili sulle pareti labili lacerti affreschi.
Colpisce la bella testa di un santo quattrocentesco in parte occultata dalla carta di giornale – si legge ancora il titolo dell’articolo “Nonni più arzilli sull’erba” – utilizzata da vandali per preparare lo stacco del dipinto, fortunatamente non completato. Anche nelle pareti della chiesa, più volte saccheggiata e forse ancor più coinvolgente per la sua profanazione, restano solo le tracce della decorazione pittorica che la rendeva maestosa.
Ignoti maestri espressero qui il segno del loro tempo, dal Trecento al Seicento. Ancora in parte visibile, oltre a una bella Incoronazione della Vergine attorniata da santi, la suggestiva rappresentazione del Miracolo dell’aquila. Ampio spazio è dato alla descrizione della valle, con le sue rocce, gli anfratti e le celle eremitiche, l’aquila che vola in alto e riporta il Bambino alla Madonna apparsa tra le nuvole. In basso è, forse, dipinta la stessa abbazia.
Anche il portale romanico della facciata fu smontato e riutilizzato come ingresso nel muro di cinta del cimitero. L’abside fu adibita a camera da letto della famiglia Medori che fino agli anni Settanta dello scorso secolo abitava la casa annessa e aveva la custodia della chiesa. Purtroppo nulla poté fare, in una notte del 1973, per scongiurare il furto dall’altare maggiore della preziosa statua lignea della Madonna della Romita o Madonna Nera, così definita per il colore scuro che aveva preso nel tempo a causa del fumo delle candele dei devoti.
La statua prese le vie del mercato antiquariale e non se ne seppe nulla fino al dicembre del 1997 quando don Francesco Medori, figlio del custode della chiesa, riconobbe sulla copertina di un giornale l’immagine della “sua” Madonna.
Da lì, attraverso una serie di mediazioni, la statua fu restituita il 28 maggio 1998 alla comunità di Piedipaterno da Nella Longari, raffinata e generosa antiquaria milanese nelle cui mani era finita la scultura e alla quale è stata dedicata recentemente una piazzetta.
La scultura raffigura la Vergine coronata, seduta su un trono appena accennato e avvolta da un manto ricoperto di lamine d’argento sotto il quale s’intravede la tunica azzurra. Con una mano offre il seno al Bambino, seduto sulla sua gamba sinistra, mentre con l’altra lo sostiene. Il postergale cuspidato presuppone la presenza in origine di ante semplici o doppie per la protezione della scultura all’interno di un tabernacolo. L’iconografia della Madonna del latte, che compare nella plastica lignea all’inizio del Trecento, colloca la scultura alla metà del secolo.
Oggi la statua è esposta nella chiesa di Piedipaterno, insieme a un bellissimo battistero anch’esso proveniente dall’abbazia, essendo la chiesa di provenienza inagibile, se pur in parte consolidata.
Vittoria Garibaldi