Risalendo il fiume Nera, due chilometri prima di imboccare la valle di Preci, in un “valloncello” si adagia un gruppetto di case dette “San Lazzaro”.
Qui, nel XIII secolo, nasce quello che si può considerare uno dei primi ospedali d’Italia: il lebbrosario di San Lazzaro in Valloncello. “Lo stesso significato etimologico – spiegano Emanuela Ruffinelli e Daniela Ghione, autrici del volume Dalla saggezza pratica alla scienza della salute – aiuta a comprendere come in origine gli ospedali non fossero luoghi di cura, ma avessero invece due precise caratteristiche: l’ospitalità dei viandanti, dei pellegrini e dei poveri, e l’assoluta gratuità della prestazione”.
Di fatto, una grossa spinta alla realizzazione di ospizi e ricoveri fu la diffusione della lebbra – arrivata nel Mediterraneo dall’Asia e dall’Egitto – e che vede la sua massima diffusione in Europa nel secolo XIII, probabilmente anche a seguito dei numerosi contatti avvenuti con le crociate.
Molti dei lebbrosari assumono il nome del patrono San Lazzaro e sin dalla prima crociata viene costituito un ordine militare e religioso a lui intitolato.
Il lazzaretto di Valloncello ha origine da una donazione fatta da Rozzardo signore di Roccapazza al prete Bono, monaco di Sant’Eutizio e cappellano di San Cataldo. La donazione, concernente alcuni terreni boschivi e seminativi, era fatta allo scopo che vi si costruisse una chiesa con annesso ospedale per gli infermi e ospizio per il pellegrini, e viene eseguita il 24 settembre 1218. Qualcuno vede come ispiratore del lazzaretto umbro San Francesco d’Assisi, che secondo la tradizione avrebbe poi visitato il lazzaretto nel 1222.
“Il complesso – spiegano le due ricercatrici – rappresenta un tipico esempio di ospedale medievale, sia nell’organizzazione che nella concezione strutturale. Per quanto riguarda l’istituzione, questa non ebbe delimitazioni nella giurisdizione territoriale e poté ospitare lebbrosi e infermi provenienti da tutte le terre ecclesiastiche”.
Gli antichi ospedali erano costruiti lungo le vie principali seguite dai pellegrini e quindi dai mercanti, e fungevano anche e soprattutto da ricoveri. “Ma è ovvio che qualcuno vi giungeva anche esausto per il lungo viaggiare o addirittura ammalato, e perciò doveva pur trovarvi persone che lo sapessero, in qualche modo, curare, anche se non erano medici o infermieri nel senso moderno della parola”.
Di fatto in ogni piccolo centro dove sorgeva una chiesa, un monastero, un castello o una villa, si assicurava al pellegrino e al viandante un luogo per riposare e quel tanto che era necessario per sostenerlo fisicamente e spiritualmente. Le cose cambiano con l’arrivo della lebbra: il flagello si abbatte sulle popolazioni debilitate da carestie, guerre e pessime condizioni igieniche. Per evitare la diffusione del contagio i magistrati dei comuni fanno internare gli infetti incamerandone i beni per devolverli alla loro assistenza.
Il lebbrosario di San Lazzaro viene costruito nei pressi del fiume Nera sia per rendere più facile la pulizia dei locali interni, sia per utilizzare l’acqua del fiume anche a scopi terapeutici: “Questo lazzaretto operò per tre secoli. Poi intorno al XVI secolo, per la mancanza di pazienti, meglio curati in ospizi cittadini, e per diminuiti casi di lebbra, l’ospedale si avviò a irresistibile declino”.
Dopo tanti secoli l’edificio – spiegano le due scrittrici – appare ancora oggi nella sua struttura primitiva, anche se rifacimenti vari ne hanno alterato alcune linee essenziali.
Un altro importante lebbrosario non lontano da Valloncello era quello annesso alla chiesa di San Bartolomeo, da cui prende il nome, e che si torva a circa due miglia di distanza da San Gemini, in vocabolo Collecapra (oggi Vallantica). “Il ricovero era situato a lato di una strada di abituale percorrenza e nei suoi paraggi si svolgeva la fiera del 25 agosto. I passanti erano prodighi di elemosine, tanto che il lebbrosario divenne un affare per chi lo amministrava”.
Il Comune di San Gemini, fondatore dell’ospedale, nel 1401 affida la cura dei malati ricoverati a due suoi concittadini: Francesco Violetto e Giacubuzio Somarucci.
Intanto a Preci, in Val Castoriana, dove si trova l’abbazia di Sant’Eutizio, è fiorita una vera e propria scuola chirurgica. La presenza di medici quali il vescovo Singoaldo, vissuto nel IX secolo, Bonito che visse nella prima metà del IX secolo e molti altri fino ad Alberico “medicus et canonicus” nel 1195, testimonia l’impegno dei monaci nella cura non solo dell’anima ma anche del corpo.
D’altra parte, spiegano le due studiose, “il divieto imposto ai monaci di intervenire sul corpo umano, sancito dal Concilio lateranense dell’anno 1215, spinse i religiosi a trasmettere le proprie conoscenze agli abitanti dei villaggi circostanti, in particolare nella vicina Preci”.
Questi, già esperti nella mattazione dei suini e quindi conoscitori degli appartati animali, apprendono le arti mediche senza difficoltà. Certo è che nel XIII secolo erano in grado di praticare la lototomia (esportazione dei calcoli vescicali), l’ernitomia e la rimozione della cataratta. Sembrerebbe che la percentuale di successo negli interventi dei preciani che operarono nelle maggiori università e corti europee, raggiungesse il 90% del successo e nel museo dell’abbazia sono ancora oggi conservati alcuni strumenti chirurgici utilizzati negli interventi.
Arnaldo Casali