Basta con gli intrugli e i praticoni, basta con i veleni spacciati per toccasana, basta con la medicina fai da te. Da oggi i farmaci si comprano in farmacia; e le farmacie non saranno più empori dove si vende di tutto e nemmeno ambulatori, ma laboratori specializzati, accuratamente selezionati e controllati.
È l’anno del Signore 1241 e Federico II, con le Costituzioni di Melfi, rivoluziona i servizi sanitari segnando l’inizio della medicina moderna.
L’imperatore decide infatti di limitare il numero delle farmacie e mettere lo speziale sotto la sorveglianza del protomedico; non solo, ma vieta l’esercizio a chi non sia autorizzato da un apposito collegio, proibisce ogni rapporto d’interessi fra medico e speziale e dà disposizioni per la conservazione dei farmaci.
“Il medico non potrà esercitare la farmacia né far società con un preparatore” prescrive il paragrafo 46 delle Costituzioni Melfitane. Questi “confectionari” dovranno prestare giuramento ed eseguire gli ordini dei medici senza frode, e le loro “staciones” dovranno occupare il territorio secondo un disegno precostituito.
Ben presto anche in altre zone d’Italia, come in Toscana, Veneto, Roma e Genova, verranno fissati i principi fondamentali che regolamentano la professione. A Venezia nel 1258 viene promulgato il Capitolare dei Medici e degli Speziali in cui sono stabilite norme precise come la preparazione di medicine secondo l’arte e le norme dell’Antidotario, il divieto di prescrivere medicine e la sorveglianza dei Consoli della Giustizia.
Con Federico viene quindi per la prima volta regolamentata una professione – quella del farmacista – che vanta origini antichissime.
Già nella preistoria l’uomo aveva scoperto l’attività benefica di alcune piante e minerali. Nella Bibbia con la parola farmakia si definivano tutte le arti con cui Babilonia sedusse il mondo, ovvero filtri amorosi e afrodisiaci. La Sacra Scrittura ricorda parecchi balsami e a Salomone è attribuito un libro sull’arte di preparare i medicamenti.
Il più antico testo di farmacologia invece risale al 2700 a.C.: una tavoletta in caratteri cuneiformi dell’antica Ur in Mesopotamia, che contiene una dozzina di ricette del medico-farmacista Lulu, con preziose indicazioni circa i componenti e le procedure utilizzate per la preparazione di pomate, decotti e lozioni.
Tra gli assiro-babilonesi per il medico-farmacista che sbagliava diagnosi o cura c’erano conseguenze serie, come indicato dal Codice di Hammurabi: in caso di buon intervento a favore di un nobile riceveva un ingente compenso in denaro, mentre se al nobile causava decesso o menomazioni gli si mozzava la mano; se a morire era uno schiavo, invece, il medico era condannato a rendere “schiavo per schiavo”.
Anche in Egitto i farmaci si basavano su precise conoscenze di botanica e di erboristeria ed erano costituiti essenzialmente da estratti di erbe e semi. Gli egizi dosavano, con speciali pesi e misure, i farmaci; conoscevano l’arte di polverizzare le droghe e setacciarle e quella di preparare infusi e decotti. Ma in Egitto ricorrevano al medico-farmacista anche molte donne per ricette di cosmesi. Numerosi medici-farmacisti diventavano gli estetisti presso le corti dei faraoni o dei nobili, ricavandone considerevoli privilegi e godendo di un prestigio assoluto erano ricercati, venerati e temuti per il loro potere.
Nell’antica Grecia i rizotomi raccoglievano e conservavano le radici e le erbe medicinali, mentre i medici preparavano i farmaci e li somministravano ai malati sotto forma di pozioni, pillole, inalazioni, pomate, supposte e clisteri.
Nell’antica Roma sono nate le prime farmacie vere e proprie (Tabernae medicinae) nelle quali la figura del pharmacotriba non esercitava più la medicina ma realizzava e vendeva rimedi prescritti da medici. Un noto medico, botanico e farmacista greco fu Dioscoride, vissuto a Roma al tempo dell’imperatore Nerone, mentre Andromaco – medico personale di Nerone – inventò la teriaca, potente contravveleno ottenuto cuocendo la carne di vipera femmina depurata dalle scorie e miscelandola, poi, nel mortaio con oppio, scilla e polvere di pan secco fino a raggiungere una consistenza adatta a farne pasta per compresse: i cosiddetti Trosici di vipera.
Nel II secolo Galeno, nato a Pergamo, fu il riformatore e teorizzatore della medicina creando un sistema destinato a durare per quindici secoli. Galeno abbandonò gli elementi mitici e ricorse ai principi sperimentali precorrendo il metodo della scienza moderna. Intraprese lunghi viaggi per conoscere le droghe nel luogo d’origine: egli chiama Myropolai, Pharmakopolai, Aromatarii coloro che le vendevano, ed erano circulatores, se andavano offrendole di casa in casa o sellularii se le commerciavano in apposite botteghe situate ai piedi del colle Capitolino.
La sua opera contiene la descrizione di 475 specie vegetali, frutto del suo peregrinare alla ricerca delle fonti dei medicamenti. Originariamente scritta in greco, venne tradotta in arabo e in latino giungendo alla stamperia veneziana dei Giunta nel 1541.
La sua teoria parte dagli assiomi ippocratici e dalla filosofia aristotelica: i quattro elementi costitutivi dei corpi sono generati dalle quattro qualità principali tra loro variamente combinate: fredda e secca è la terra, fredda e umida è l’acqua, calda e umida è l’aria, caldo e secco è il fuoco. Dalla mescolanza degli elementi hanno origine nel corpo umano gli umori: dalla terra più l’aria la bile nera, dalla terra più il fuoco la bile gialla, dall’acqua più l’aria la pituita, dall’acqua più il fuoco il sangue. Il prevalere di un umore sugli altri fa parte della caratteristica di ogni uomo, ma quando per cause sconosciute si altera il primitivo equilibrio, subentra lo stato morboso. Per questo ogni malattia si riteneva originata dai “cattivi umori” e anche i problemi che oggi definiamo psichiatrici venivano trattati chirurgicamente, per far fuoriuscire i fluidi.
Nel 470 Cassiodoro, ministro del re ostrogoto, nella sua opera Istituzioni Divine raccomandava insistentemente d’istruirsi nell’arte della preparazione dei medicinali, consigliando di leggere il libro di Dioscoride.
Nel mondo arabo esistevano trattati per farmacia già prima del VII secolo. La prima farmacia pubblica fu aperta a Baghdād al tempo del califfo al-Mansūr e la prima ospedaliera al Cairo, nell’anno 873.
Nel Medioevo cristiano la farmacia si è sviluppata soprattutto all’interno delle abbazie, dotate di orti botanici dove i monaci potevano coltivare ogni sorta di pianta medicinale e sperimentarne poi l’azione terapeutica. Intanto nel sud Italia prendeva corpo la scuola medica salernitana, che manteneva un indirizzo ippocratico con poche influenze magico-astrologiche, mentre più di secolo dopo nella renania sorgeva una organizzazione ispirata da Ildegarda di Bingen.
La Scuola Salernitana rappresenta una cultura esclusiva radicata in una regione posta al centro del Mediterraneo e, quindi, aperta ad ogni scambio tra oriente e occidente e rese l’Italia l’ambiente ideale per la nascita e il progresso della farmacia in forma autonoma.
La diffusione della cultura araba in occidente vale non solo a conservare il sapere greco ma ad arricchirlo considerevolmente: si amplia la conoscenza delle erbe, delle droghe e dei modi opportuni per combinarle, ma anche degli strumenti di laboratorio e delle tecniche di conservazione dei vari medicamenti.
Un altro fenomeno riguarda l’apertura di molti ospedali, dapprima legati ai monasteri e poi anche laici, che richiedono l’istituzione di vere e proprie farmacie. Durante le crociate, poi, sono arrivate in occidente le droghe di origine orientale che hanno contribuito allo sviluppo delle civiltà cinese, persiana, mesopotamica ed egizia: lo zucchero, la canfora, l’aloe, l’oppio hanno avuto un’importanza fondamentale, e così essenze come muschio e ambra. Quello che serve, soprattutto, sono le conoscenze per trattare sostanze che – se somministrate sbagliando con dosi sbagliate – hanno effetti tossici che possono risultare letali.
Per questo motivo Federico, imperatore e Re di Sicilia dal 1212 al 1250, decide di regolare con estrema precisione l’esercizio professionale della medicina e della farmacia. Con le sue Costituzioni l’imperatore vieta al medico di fare anche lo speziale, istituisce il ruolo del farmacista, stabilisce le regole per l’esercizio della professione, tra cui la proibizione di vendita delle sostanze velenose, conferisce al medico la possibilità di denunciare lo speziale per ogni inadempienza, fissa il controllo del numero degli esercizi in rapporto al numero di abitanti, introduce la tariffa dei medicinali e vincola medici e speziali ad un preciso giuramento.
La scelta di ridurre il numero delle apoteche è legato alla necessità di creare dei centri specializzati. Nel XIII secolo, infatti, nei centri maggiori ne esistono così tante che è impossibile sostentarle con la sola vendita dei farmaci, e di conseguenza si sono trasformate in veri e propri empori dove i farmacisti facevano di tutto: clisterizzavano, imbalsamavano, sofisticavano droghe, vendevano medicamenti, ma anche frutta, carni e dolci. Tuttavia l’apoteca del farmacista – a differenza dei negozi di alimentari – è dotata di ricchi arredi, vasi preziosi, strumenti come mortai, storte, fornelli, bilance, alambicchi e persino biblioteche. Non a caso lo stesso Dante Alighieri frequenterà assiduamente a Firenze la “Farmacia del Diamante” e si iscriverà alla Corporazione degli Speziali. Anche Giotto e Botticelli si iscriveranno all’Arte dei Medici e degli Speziali a Firenze per imparare la tecnica dei colori.
A metà del XIII secolo fanno così la loro comparsa gli statuti dell’Arte degli Speziali italiani, di cui i più antichi e prestigiosi sono lo statuto dell’Ars Medicorum et Spetiarorum di Firenze del 1266, gli Statuti di Siena del 1356 ed il Capitolare del Nobile e salutifero Collegio degli Aromatari di Palermo del 1407, nel quale viene sancito l’obbligo del giuramento per l’esercizio della professione, si impone l’osservanza di un Codice ufficiale dei medicamenti, si fa divieto di esercitare l’arte medica, si vieta la consegna di farmaci agli ammalati senza licenza di medico autorizzato, si prevede la visita periodica alle spezierie da parte di una commissione mista composta da medici e speziali e si vieta di dare percentuali al medico in cambio di ottenute prescrizioni.
All’interno delle corporazioni vengono poi create vere e proprie commissioni: ci sono gli statutari (revisori delle norme), i cercatori (di inadempienze), i taratori (di bilance) e i garbellatori (setacciatori). L’ingresso costa 4 fiorini d’oro e, tra i vari privilegi, assicura anche un soccorso in caso di necessità nonché la presenza di almeno 18 soci al funerale.
Nel 1300 nell’apoteca si producono e si vendono anche candele di cera vergine, che sono l’unico tipo ammesso dal rituale cattolico e durante le veglie funebri, mentre sono proibite quelle di sego che sono più economiche ma hanno un pessimo odore e producono troppo fumo, così come quelle di cera fuori e di sego dentro.
Il farmacista, comunque, non resta solo a servizio del medico, ma anche dei santi protettori: nel caso in cui la cura prescritta non funzioni, infatti, nell’apoteca si possono comprare anche ex-voto in cera naturale o colorata raffiguranti le parti del corpo malate (un piede, una gamba, una mano) da utilizzare nel caso in cui si voglia chiedere una grazia.
Nell’epoca comunale la farmacia diventa il luogo in cui le persone colte della città si riuniscono per passare in rassegna le questioni più importanti del momento, da quelle scientifiche a quelle politiche ed artistiche. Non a caso nel 1583 nella Farmacia Lasca in Firenze vedrà la luce l’Accademia della Crusca.
L’eredità di uno speziale è così ambita da dare origine anche a filastrocche, come la celebre conta “Ambarabà ciccì e cocco” che – sotto metafora – racconta come tre pretendenti si contendano la mano della figlia del farmacista del paese.
Nel 1471 l’Antidotario della Scuola Salernitana viene stampato a Venezia e reso obbligatorio per gli speziali d’Italia. Viene, inoltre, pubblicato il Compendium Aromatorium di Saladino d’Ascoli che, diviso in 7 particulae ed in forma di domanda e risposta costituisce il miglior riferimento per gli allievi in attesa di essere esaminati oltre che il ritratto ideale dello speziale dell’epoca.
Le corporazioni degli speziali troveranno anche i propri patroni nei santi Cosma e Damiano e adotteranno come simbolo il caduceo: un bastone alato con due serpenti attorcigliati.
La tradizione vuole che i serpenti in questione siano esemplari di Zamenis longissimus, detto anche “Colubro di Esculapio”. Originariamente il serpente era situato infatti sul bastone di Esculapio, il dio della salute istruito nell’arte medica dal centauro Chirone che, secondo la leggenda era in grado di guarire da qualsiasi malattia. Il serpente con il cambiamento della pelle simboleggia la rinascita, mentre il bastone lo strumento medico. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che un tempo il simbolo rappresentasse un verme parassita, che si estraeva da sotto la cute arrotolando lentamente intorno a un bastoncino.
È possibile che i medici abbiano pubblicizzato questo servizio comune apponendo un segnale con disegnato il verme su un bastone. Altre ipotesi vedono invece nel serpente un simbolo di conoscenza, idea sostenuta anche dal racconto di Adamo ed Eva nella Genesi. Lo stesso veleno di questi rettili, d’altra parte, è stato usato sin dai tempi antichi per la preparazione di farmaci e antidoti.
Il caduceo è invece il bastone della sapienza, attribuito di Mercurio. I due serpenti rappresentano il bene e il male (ma anche grandi energie solari e lunari e la parte destra e sinistra del corpo umano) tenute in equilibrio dalla bacchetta del dio Mercurio. Le ali simboleggiano il primato dell’intelligenza, che si pone al di sopra della materia per poterla dominare attraverso la conoscenza.
Col tempo, il bastone di Esculapio è stato confuso col caduceo, fondendo i due simboli in quello che, ancora oggi ci ritroviamo tra le mani ogni volta che apriamo la porta di una farmacia.
Arnaldo Casali