Quando pensava a una nuova capitale per il suo impero, Costantino Il Grande (280-337) aveva in mente Serdica, l’attuale Sofia, oggi capitale della Bulgaria.
Una predilezione su cui concordano le principali fonti storiche. Espressa già prima di superare una serie interminabile di battaglie dalla quale, alla fine, emerse come il vincitore in una lunga e spietata lotta per il potere che nell’arco di 18 anni coinvolse, insieme a lui, ben altri 8 imperatori, a partire da suo padre il generale Costanzo Cloro, chiamato così, “chlorus”, per il pallore dell’incarnato. Massimiano, Galerio, Severo, Massimino Daia, Licinio, Massenzio e il vecchio Domizio Alessandro, un “usurpatore” che nel 308 ebbe l’idea di farsi acclamare augusto d’Africa: nel 326, tutti gli augusti erano tutti svaniti nel gorgo di vicende terribili e tumultuose. Ora c’era un solo impero. E soprattutto un unico imperatore.
Mancava solo una capitale costruita a sua immagine e somiglianza. Ogni imperatore, sul modello di Alessandro Magno ne aveva scelta una nelle varie regioni dell’impero, a volte adottando una città, a volte fondandone una ex novo.
“La mia Roma è Serdica”, ripeteva Costantino a se stesso e a chi gli era intorno. La scelta, almeno all’inizio, lo convinceva per due ottimi motivi.
Il primo era affettivo: sentiva quelle aspre terre dell’Illiria, della Tracia e della Pannonia, comprese tra il Mar Nero, l’Adriatico e l’Egeo, come la sua vera patria. Lì era venuto al mondo suo padre. Lui stesso era nato nella città fortificata di Naisso, lungo il fiume Nišava, nell’attuale Serbia, a poco più di un centinaio di miglia da Serdica. Provenivano dal cosiddetto triangolo illirico anche tutta un’altra serie di imperatori, ascesi al potere a partire dal 268. Idoli dei legionari, tutti di origine plebea: da Claudio il Gotico ad Aureliano, fino a Probo e al grande Diocleziano. Soldati ruvidi e coraggiosi. Figli del limes danubiano ma per molti versi più romani dei romani.
L’altro motivo era una disaffezione che in alcuni periodi arrivò a rasentare l’odio: in realtà, Costantino, inebriato del mito di Roma non ne sopportava i cittadini. E i romani, in fondo, non amavano lui. Almeno quanto lui volesse. In riva al Tevere, si criticava l’amore per i fasti orientali di un imperatore che, ornato di bracciali e collane, nel momento del trionfo aveva ignorato la rituale ascesa al Campidoglio e non aveva reso grazie a Giove, simbolo eterno della grandezza di Roma.
Non solo: Costantino aveva sciolto la guardia pretoriana di Massenzio e abolito i popolari giochi dei gladiatori, oltre ad aver riempito di chiese una città nella quale insieme ai nuovi, tanti cristiani, convivevano, soprattutto nelle fasce più abbienti della popolazione molti cittadini che praticavano ancora i riti dei loro padri.
L’antipatia era manifesta. E ricambiata. Quella grande, cinica e corrotta città, appariva a Costantino sempre più lontana e ingovernabile. Soprattutto dopo l’uccisione di Crispo (302-326), quando si moltiplicarono i sarcasmi, le critiche e le condanne, sempre meno velate, per l’autocrate capace di mettere a morte anche suo figlio.
L’imperatore aveva da tempo preso coscienza di un fatto: Roma non poteva più essere il centro del mondo e il cuore dell’impero. Ne rimaneva il nome, quello sì, immortale: Caput Mundi. E la gloria perduta. La bussola della storia seguiva quella dell’economia e del potere militare e politico. E indicava l’Oriente.
Il realismo politico vinse sulle ragioni del cuore anche per Serdica capitale: l’antico oppidum dei Traci aveva una posizione geografica sfavorevole, inadatta a un adeguato controllo di un impero così vasto.
Dopo la vittoria del 18 settembre 324 a Crisopoli contro Licinio, un nuovo sogno orientale abbagliò Costantino: Troia, la città madre di Roma, poteva, anzi, doveva essere la sua nuova capitale. La posizione geografica era eccellente. E il fascino del luogo appariva irresistibile: una Nuova Roma proprio nella patria di Enea. La nascita di un nuovo mondo là dove tutto era iniziato. Un ritorno alle origini del mito.
Zosimo, scrittore bizantino del VI secolo, autore di una storia di Roma in sei libri, ci ricorda che il luogo preciso scelto per la fondazione della nuova capitale era situato tra l’antica Ilio e il capo Sigeo: l’imperatore
vi pose le fondamenta ed eresse una parte del muro che ancora oggi possono vedere quelli che navigano verso l’Ellesponto.
Jacob Burckhardt, il grande storico di Basilea vissuto nel XIX secolo, descrisse in modo vivido la determinazione di Costantino: “Si recò di persona là dove da millenni si sacrificava sui tumuli degli eroi di Omero; sulla tomba d’Aiace, intorno all’ex campo greco, tracciò il perimetro della futura città”.
Sembrava fatta. Ma all’improvviso i lavori cessarono. Costantino aveva di nuovo cambiato idea. Un ripensamento sul quale, a distanza di secoli, è difficile fare piena luce. Forse fu dettato da opportunità politiche o dai consiglieri cristiani dell’imperatore, contrari alla costruzione della nuova capitale del mondo sulle rovine di quella che era la più mitologica delle città pagane. Ancora una volta, molti anni dopo, quando il Cristianesimo si era ormai affermato in tutto l’impero, la propaganda imperiale spiegò la vicenda parlando di una visione: Dio stesso aveva ordinato a Costantino di fermarsi.
Dove doveva sorgere la Nuova Roma? L’imperatore pensò anche a Tessalonica, l’attuale Salonicco. Ma la ricca città fondata dai Macedoni e chiamata con il nome della sorellastra di Alessandro Magno, era già stata la capitale di Galerio, il primo augusto della tetrarchia dopo il ritiro a vita privata del vecchio Diocleziano.
Allora la scelta, che sembrava quella definitiva, cadde su Calcedonia, la colonia greca nel mar di Marmara, che sorgeva sulla sponda asiatica del Bosforo. Ma fu un altro segno del destino, questa volta pagano, a cambiare il corso delle cose.
Leggenda vuole che alcune aquile, rubassero le funi con le quali i progettisti di Costantino stavano misurando il perimetro della futura capitale dell’impero e le portassero in volo sull’altra riva, a Bisanzio, la città costruita dai Greci nel VII secolo avanti Cristo.
L’imperatore aveva già visitato il luogo due anni prima, quando aveva sconfitto Licinio, il suo ultimo concorrente al trono. Appariva perfetto: al confine tra l’Asia e l’Europa e in una posizione strategica, dalla quale si potevano controllare sia i commerci via terra tra i due continenti che le rotte marittime dal Mar Egeo al Mar Nero.
Bisanzio sorgeva su una penisola che per tre lati era difesa dalle acque: ad est il Bosforo, a nord il Corno d’Oro e a sud il Mar di Marmara. Per via di terra era accessibile da un solo lato, ad occidente. Ma lì si poteva difendere con un adeguato sistema di mura. La città era collegata alla regione balcanica e all’Adriatico attraverso la via Egnatia e alla frontiera siro-persiana grazie ad una strada militare che tagliava in due la penisola anatolica.
Nella scelta del sito di Bisanzio, c’erano da metter in conto anche fondamentali esigenze strategiche. Dalle rive del Bosforo la vigilanza diretta dei confini imperiali appariva più agevole. E si potevano controllare meglio le crescenti ambizioni del risorto impero persiano.
Non si trattava di costruire ex novo una nuova capitale. Ma Costantino volle comunque un tradizionale e solenne rito di fondazione. Gli astrologi considerarono come favorevole la posizione delle stelle. E gli àuguri, attraverso il volo degli uccelli, accertarono la benevolenza degli dei. Nelle sue vesti di sommo sacerdote, con la cerimonia della limitatio, l’imperatore tracciò sul terreno con una lancia i confini della città a lui consacrata e quadruplicò l’ampiezza della antica colonia greca.
Nel 326 fu posata la prima, simbolica pietra.
L’imperatore impresse un ritmo frenetico ai lavori. La penisola sul Bosforo divenne il luogo del più grande cantiere dall’epoca dell’incendio di Roma al tempo di Nerone. Migliaia e migliaia di lavoratori accorsero a Bisanzio da ogni lato dell’impero. Bisognava far presto. Costantino fece ampliare e restaurare i precedenti edifici voluti a Bisanzio da Settimio Severo.
L’ippodromo venne ricostruito in direzione del mare. Accanto fu edificato il Gran Palazzo: un immenso sistema di edifici di quasi 100mila metri quadrati con terrazze e giardini che digradavano dolcemente verso il Mar di Marmara. Statue e preziosi marmi policromi abbellirono le Terme. E nell’area oggi compresa tra la basilica di Santa Sofia e la Moschea Blu, nacque il Foro: una grande piazza pubblica, delimitata da quattro portici (tetrastoon). Era l’Augusteion, chiamato così in onore di Elena, l’augusta, l’imperatrice madre che un tempo era stata una locandiera e che ora partecipava alla gloria di quel figlio nato da una relazione con Costanzo Cloro, padrone del mondo conosciuto e a cui tutti si prosternavano come fosse un dio.
Come Roma, Costantinopoli sorgeva su sette colli e venne divisa in quattordici distretti amministrativi. E come Roma si arricchì di grandiosi edifici pubblici, collegati tra loro da una strada imponente: la Mese (la “via di Mezzo”) larga 25 metri e costeggiata da portici colonnati, all’interno dei quali trovarono spazio negozi di ogni tipo.
Ad est, la Mese iniziava dal Milion, una colonna miliare d’oro dalla quale si poteva misurare la distanza che separava Costantinopoli dalle province dell’impero. Nacque un più efficiente sistema di mura fortificate. Un grande acquedotto e grandi cisterne assicuravano l’approvvigionamento idrico.
Sul modello romano, Costantino istituì anche un Senato. Ma non voleva soppiantare Roma, o perlomeno l’idea di Roma: per lungo tempo nei ranghi dello stato romano, i senatori che vivevano in riva al Tevere rimasero più importanti di quelli di Costantinopoli. Tanto da essere chiamati clarissimi, mentre quelli della città sul Bosforo venivano appellati soltanto come clari. Quanto al potere, per entrambi le classi senatoriali era ridotto. Quelli di Costantinopoli erano assoggettati completamente all’imperatore. Vennero reclutati pressoché tutti dai territori orientali. Questo fatto ebbe conseguenze importanti: nella compagine imperiale il Senato di Roma si trovò, di fatto a rappresentare l’elemento latino. Quello di Costantinopoli soltanto l’elemento greco. Una contrapposizione che in futuro avrebbe segnato una ulteriore frattura tra la pars orientis e la pars occidentis dell’impero.
Costantino, come a Roma, volle un Prefetto che governasse la città. Ma come per il Senato, era un ruolo formale. Quello che davvero contava era la volontà dell’imperatore.
Nella nuova, grande città, pagani e cristiani ottennero spazi paritari. E accanto ai templi nacquero chiese di grande bellezza.
Per sostenere i grandiosi lavori della sua capitale, Costantino utilizzò enormi somme di denaro, fece abbattere i boschi del Ponto Eleusino e svuotare le celebri cave di marmo dell’isola di Proconneso.
Molte città vennero spogliate dei loro tesori: meraviglie dell’arte antica destinate ad abbellire la nuova capitale. Solo nell’area dei bagni pubblici vennero sistemate ottanta grandi statue bronzee. Le cronache citano una statua di Pallade da Lindo e un’altra di Zeus che proveniva da Dodona, il centro dell’Epiro sede degli oracoli dedicati alle divinità pelasgiche. Sulla “spina” dell’Ippodromo vennero sistemati i quattro celebri cavalli, scolpiti nel bronzo di Corinto e attribuiti a Lisippo, che dopo la quarta crociata (1204) furono portati nella basilica veneziana di San Marco. Nel “sacco di Costantinopoli” i crociati distrussero anche una splendida statua di bronzo che raffigurava Ercole, anch’essa di Lisippo. Sappiamo anche di un’altra statua di Zeus, opera di Fidia, che finì bruciata in un incendio nell’anno 462.
Un gruppo di Muse dall’Elicona vigilava sulle decisioni del Senato. Girolamo (347- 420) padre della Chiesa, dopo la morte di Costantino, vergò parole di condanna per quel caotico costruire:
Inaugurano Costantinopoli mentre quasi tutte le città vengono spogliate.
Ancora più severo fu, nell’Ottocento, Burckardt che addebitò all’imperatore quello che apparve
il più vergognoso e immane saccheggio della storia.
L’atto di fondazione fu grandioso e segnato dai riti con i quali, mille anni prima, era stata consacrata Roma. L’11 maggio 330 fu celebrata la cerimonia della dedicatio.
Per Costantino, la Nuova Roma doveva richiamare sempre l’antica. Alle due città venne assegnato lo stesso nome segreto, Flora, che doveva rimanere per l’eternità ed essere suggellato da pratiche misteriche in grado di assicurare alla nuova città la stessa fortuna di quella fondata da Romolo il 21 aprile del 753 avanti Cristo.
Sull’11 maggio 330, il giorno della nascita di Costantinopoli, i resoconti delle fonti storiche, tanto per cambiare, sono discordanti. Eusebio di Cesarea, vescovo e storico, apologeta dell’imperatore, afferma che la nuova e grande città fu consacrata al Dio dei martiri cristiani. La Chronographia del greco-siriano Giovanni Malala, scritta due secoli dopo i fatti (560 circa) sostiene invece che prima della dedicatio, l’imperatore avrebbe fatto trasportare in segreto da Roma il Palladium, l’antica e venerata effige lignea che Enea avrebbe portato da Troia nel Lazio. Un talismano che in modo arcano aveva protetto per secoli le sorti del Caput Mundi e che ora tornava in Oriente a trasferire il mito dell’invincibilità a Costantinopoli.
L’imperatore avrebbe fatto seppellire il simulacro troiano sotto una gigantesca colonna, alta 32 metri e formata da sette blocchi cilindrici di porfido sovrapposti. Nel corso della fondazione della città venne posizionata proprio al centro del Foro e in suo onore fu chiamata Colonna di Costantino. Giovanni Malala ci informa che
sulla sua colonna egli pose la sua statua, che ha sul capo sette raggi.
Nel centro della sua città e anche del suo impero, Costantino volle essere raffigurato come una divinità solare: Helios Apollo “il sole che tutto domina con lo sguardo”, come recitava un’altra iscrizione usata dai suoi sudditi di Termesso, una città sui monti Tauri.
La Colonna di Costantino conosciuta anche come “Colonna bruciata” o “Pietra cerchiata” è il solo resto importante sopravvissuto all’età del fondatore di Costantinopoli.
Costantino non rinunciò mai alla sua funzione di Pontifex maximus. Un imperatore “papa” affascinato dal monoteismo al quale si era avvicinato già al tempo della guerra contro Massenzio. Lo storico Franco Cardini sottolinea l’atteggiamento ambiguo dell’imperatore di fronte al credo religioso. Certo, era attratto dal cristianesimo della madre Elena. Ma per lungo tempo più che monoteista “fu enoteista: adorava una divinità suprema accompagnata da altri dei”.
La tradizione cristiana vuole che nel 337, sentendo la morte vicina, volle essere battezzato. Tra i tanti edifici nati durante la fondazione di Costantinopoli, l’unico che fu completato prima della sua morte fu la chiesa dei Santi Apostoli. Il sarcofago dell’imperatore venne posto in posizione centrale tra i cenotafi dei dodici apostoli.
Un altro segno di come Costantino volle passare alla storia: un “isoapostolo”. Uguale agli Apostoli. Quasi un omologo di Cristo.
Federico Fioravanti
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