Incessantemente evocata e altrettanto scarsamente documentata nella sua drammatica concretezza – soprattutto per il Medioevo -, la povertà femminile (limitata a determinate fasi o situazioni dell’esistenza e non generalizzabile), trapela dai contesti più vari, in scene che ne rendono palpabile tutto il suo spaventoso, raccapricciante, squallore.
Emerge casualmente dalle vite dei Santi, dai processi di canonizzazione, dai libri contabili degli orfanotrofi, dagli atti notarili, dalle controversie giudiziarie, dalle cronache, dalle novelle, dagli statuti urbani e rurali. Un mondo altalenante tra città e campagna (dove sicuramente maggiore era il disagio), popolato di vedove, anziane, malate e disabili, balie, filatrici, prostitute, braccianti agricole, che solo annotazioni casuali nella documentazione più varia hanno potuto riportare alla luce sottraendole alla polvere del tempo. Un mondo concreto di sofferenza che riaffiora soltanto a tratti, spesso con risvolti impensati.
Come ha messo in evidenza soprattutto la storiografia anglosassone (J.Bennet, P. Skinner, Sh.Farmer), l’universo femminile dei ceti meno abbienti non era sempre e necessariamente in condizioni di drammatica indigenza, e anzi i casi concreti di povertà vengono assai raramente documentati. Le dichiarazioni in tal senso provenienti in prima persona da alcune vedove, ad esempio, erano di fatto totalmente ingiustificate e dipendevano piuttosto dal diverso concetto che ciascuno aveva di povertà, mentre le donne sole non erano necessariamente povere e incapaci di mantenersi, ma anche questo variava moltissimo da caso a caso, in rapporto all’età, al contesto sociale ed economico, alla situazione specifica di ciascuna. Persino l’iconografia offre molto più frequentemente immagini di donne nel pieno delle loro capacità lavorative piuttosto che di mendicanti.
Esistevano però, nel Medioevo come oggi, specifiche fasi o congiunture sfortunate dell’esistenza (malattia, invalidità, vecchiaia, madri sole con neonati), o settori lavorativi particolarmente disagiati (come il bracciantato agricolo), che potevano gettare le donne (e parimenti gli uomini), nella miseria più nera. Eppure, anche in questi frangenti, alcune di loro riuscivano sorprendentemente a risollevarsi grazie ad un’oculata gestione delle proprie misere risorse, o con l’aiuto di attive reti di solidarietà femminile che qualche volta riuscivano persino a sottrarre all’abisso della malattia e della disperazione le più sfortunate. Pur nell’estrema variabilità dei contesti, anche tra i ceti più umili e nei mestieri meno retribuiti (filatrici, balie e domestiche cittadine), una donna sola riusciva spesso a sopravvivere col proprio lavoro, e qualche volta persino ad aiutare parenti più poveri. Questo si verificava anche perché molte di loro, pur in situazione precaria, riuscivano a mettere in atto soluzioni per sfuggire alla povertà integrando il proprio reddito con gli introiti derivanti dall’affitto di una casa, di una stanza, di un terreno, o con l’acquisto di titoli del debito pubblico, grazie ai risparmi di momenti migliori. I conti correnti aperti presso il banco dell’Ospedale di S.Maria della Scala a Siena (sec.XIV), e quelli del banco dell’ospedale fiorentino degli Innocenti (sec.XVI), appartenevano in buona parte a donne dei ceti più umili, che cercavano nell’interesse offerto (5%) una garanzia di sopravvivenza. Emerge insomma un’estrema capacità di reagire ai colpi del destino, nonché quella di rivendicare tenacemente i propri diritti, fino a ricorrere alle vie legali per ottenere quanto loro spettante.
La famiglia non sempre era di aiuto: vedove un tempo facoltose si riducevano in povertà perché gli eredi dei mariti rifiutavano di restituire loro la dote; ragazze disabili di famiglie agiate venivano abbandonate dai parenti sulla tomba del santo dove erano state accompagnate col pretesto di chiedere un miracolo; mogli paralitiche venivano costrette dai mariti a mendicare per contribuire al reddito familiare.
Sorprendentemente, in soccorso di queste donne, oltre alle istituzioni assistenziali e alle reti solidaristiche, intervenivano talvolta statuti cittadini e rurali, provvedimenti governativi, datori di lavoro, sia pubblici che privati (grandi cantieri, arsenali, istituzioni “statali” come la Zecca veneziana), e in questo senso erano rivolti persino gli orientamenti giurisprudenziali del diritto canonico, imponendo agli uomini di pagare gli alimenti per i figli illegittimi. C’erano istituzioni come l’Arsenale di Venezia (il cantiere pubblico veneziano) o la Fabbrica del Duomo di Milano, che prevedevano persino una pensione per la vedova dell’operaio morto per infortunio sul lavoro; statuti rurali che consentivano alle donne in attesa di un bambino di entrare nella proprietà altrui e nutrirsi dei frutti degli alberi. Il consiglio direttivo di una miniera di sale francese (secc. XV-XVII) giunse persino ad accordare la pensione di vecchiaia a donne di almeno 60 anni che lavoravano da più di 40 …
I casi più eclatanti di povertà sono documentati in regioni geografiche assai distanti fra loro: nella Toscana tre/quattrocentesca (soprattutto nell’aretino), e nelle campagne inglesi del ‘200, dove le braccianti agricole che lavoravano a volte portando sulle spalle i propri neonati, potevano ingaggiare lotte furibonde per un tozzo di pane, o morire di stenti, durante l’inverno, scivolando in canali ghiacciati. Dalla documentazione emergono mogli di contadini che non avevano nulla per sostentare la famiglia, balie di campagna (remunerate molto meno di quelle cittadine), così denutrite che non riuscivano ad allattare i piccoli loro affidati; filatrici sottopagate, derubate con vari trucchi dai lanaioli che commissionavano loro il lavoro, o costrette a vendersi per riscattare l’abito della festa.
Molto migliore invece la condizione di filatrici e balie cittadine, meglio remunerate e che talvolta riuscivano a vivere del proprio lavoro, anche se in periodi di guerre o carestie la situazione si faceva più drammatica proprio nelle città, costringendo le madri a vendere le figlie bambine per un po’ di nutrimento.
Nelle città poi, le donne di tutti i ceti sociali di tutta Europa, fra il XIII e il XVI secolo erano coinvolte in tutte le possibili attività lavorative, dal tessile ai lavori più pesanti come l’edilizia e le miniere, e ad ogni livello, dalla manovalanza all’imprenditoria.
Maria Paola Zanoboni
Consigli di lettura:
Maria Paola Zanoboni, Donne al lavoro nell’Italia e nell’Europa medievali (secc.XIII-XV), Milano, Jouvence, 2016
Maria Paola Zanoboni, Povertà femminile nel medioevo. Istantanee di vita quotidiana, Milano, Jouvence, 2018, e la bibliografia ivi citata, tra cui:
S. Farmer, Surviving Poverty in Medieval Paris: Gender, Ideology, and the Daily Lives of the Poor, Ithaca, Cornell University Press, 2002
G. Piccinni, Le donne nella mezzadria toscana delle origini. Materiali per la definizione del ruolo femminile nelle campagne, «Ricerche Storiche», XV (1985), pp. 127-182, ora anche in A. Cortonesi, G. Piccinni, Medioevo delle campagne. Rapporti di lavoro, politica agraria, protesta contadina, Roma, Viella, 2006, pp. 153-203
G. Piccinni, Il banco dell’ospedale di Santa Maria della Scala e il mercato del denaro nella Siena del Trecento, Pisa, Pacini, 2012
I. Chabot, «Breadwinners». Familles florentines au travail dans le Catasto de 1427, «MEFRIM», 2016, 128-1, pp. 2-22