“L’arte del sarto nel Medioevo. Quando la moda diventa un mestiere” di Elisa Tosi Brandi (Il Mulino) è un libro che ricostruisce l’evoluzione del metodo di lavoro dei sarti e analizza le pratiche sociali connesse al vestiario, nelle corti come in città. La clientela si fa più sensibile al consumo degli abiti che diventano simboli di distinzione sociale, con un occhio sempre più attento alla moda.
I sarti si organizzano per far fronte alla richiesta di abiti sempre più ricchi e alla moda, si specializzano per lavorare i panni e ottenere i tagli giusti. Il volume descrive il lavoro del sarto nel tardo Medioevo, attraverso le fonti scritte, figurative e materiali, mettendone in evidenza il ruolo nell’economia cittadina, le capacità tecniche e l’apporto creativo.
L’autrice, ospite al Festival del Medioevo di Gubbio nel 2018, racconta i tratti essenziali della sua ricerca.
Nel Medioevo ci si vestiva, ma del sarto e dell’attività di confezionamento dei vestiti si parla poco, questo volume colma una lacuna, perché?
“In effetti gli studi sul mestiere del sarto riferiti al Medioevo sono pochi. Ciò può dipendere, in parte, da un diffuso pregiudizio sull’argomento «moda», fenomeno ed ambito entro il quale il sarto opera; d’altra parte ciò può essere dipeso dalla non facile comprensione di questa figura professionale che si delinea tra pieno e basso Medioevo. Nel corso della mia ricerca ho dovuto inseguire i sarti consultando e giustapponendo varie tipologie di fonti storiche, trovandoli in relazione con tanti altri mestieri implicati a vario titolo nella confezione delle vesti e da cui ho cercato di isolarli mettendo in luce la loro competenza e professionalità.
Il mestiere del sarto nasce e si sviluppa contestualmente al fenomeno della moda tra i secoli XII e XIII ed è associato a trasformazioni importanti che rivoluzionarono le abitudini del vestire, differenziando per esempio per la prima volta gli uomini dalle donne attraverso le vesti. Nel Medioevo all’abito fu assegnato il compito di distinguere socialmente le persone. Ciò accadde anche nei secoli precedenti, ma nel Medioevo, grazie alle nuove soluzioni sartoriali, vestire secondo le novità fu indice di appartenenza al tempo presente. Elemento, quest’ultimo, che attesta la nascita del fenomeno della moda. Intorno al XIII secolo le persone erano perfettamente in grado di comprendere ciò che era alla moda o «moderno», da ciò che era «antico».
Il desiderio di novità spinse le persone ad appropriarsi di nuovi segni distintivi anche attraverso gli abiti e gli artigiani si organizzarono per far fronte a queste nuove esigenze. Siamo agli albori di ciò che gli storici chiamano un primo consumismo, certamente limitato, riguardante l’acquisizione di beni eccedenti lo stretto indispensabile.
Le prime novità avvennero in ambito cortese, ma la moda si sviluppò nelle città grazie a nuovi spazi per l’esibizione, la produzione e il commercio. Nelle città e tramite il fenomeno della moda e, quindi, delle vesti, furono messe in crisi le gerarchie sociali precostituite. Le leggi suntuarie costituirono la risposta delle autorità cittadine al desiderio dei nuovi ceti di apparire migliori appropriandosi di segni distintivi non adeguati alle varie condizioni sociali. I sarti furono protagonisti di queste vicende, gli artigiani più vessati, insieme con le clienti, dalle leggi che disciplinavano il lusso e le novità dell’abbigliamento”.
Chi era e che ruolo aveva il sarto nella società medievale?
“Nelle leggi corporative del Trecento si trovano le prime definizioni di un’arte che esisteva da almeno due secoli, ma che ad un certo momento fu necessario distinguere da altre che, pure, si occupavano di abiti, per esempio di quelli usati. Nelle piazze e tra le vie cittadine numerosi erano infatti gli artigiani che producevano e commerciavano capi di abbigliamento. Dal XIV secolo il sarto fu definito colui che tagliava e cuciva tessuti nuovi per realizzare vesti nuove su commissione. Considerato che, in generale, nei bilanci famigliari le spese per l’abbigliamento seguivano immediatamente quelle per i generi alimentari, le prime voci di spesa, comprendiamo che una buona parte della popolazione nel Medioevo si recava dal sarto per la confezione di abiti. Ciò dipese in primo luogo dal fatto che questi ultimi incominciarono ad avere una costruzione sartoriale complessa, inoltre dal fatto che il costo di confezione poteva essere alla portata di molti, infine dal fatto che il sarto poteva offrire anche il solo servizio di taglio del tessuto. Questo era stabilito dai tariffari di sartoria, dove si specificava tuttavia che il tessuto, una volta tagliato, doveva essere cucito esclusivamente dalle donne di casa e non presso un altro laboratorio.
C’erano cartamodelli di vario prezzo, in genere tuttavia il costo della fattura del sarto era piuttosto basso rispetto al costo delle materie prime, che potevano essere fino a 600 volte superiori alla retribuzione dell’artigiano. Per un abito confezionato con un tessuto di media qualità, il compenso del sarto poteva incidere di circa il 10% del costo complessivo dell’indumento.
Le scarse retribuzioni dei sarti non consentirono a questi artigiani di arricchirsi con questo mestiere, considerato un’arte «lizera» da Giovanni Antonio da Faie, che nella sua autobiografia del XV secolo racconta di essere stato un apprendista in sartoria. L’arte del sarto era alla portata di tutti perché non comportava consistenti investimenti iniziali: forbici, ago, ditale, gessetto, filo erano infatti gli strumenti portanti del mestiere (e lo furono per molto tempo in seguito).
Dall’analisi degli statuti corporativi si ricava che esisteva una gerarchia all’interno dell’Arte tra chi aveva le possibilità economiche di gestire una bottega ed avere qualche lavoratore dipendente e chi invece era nelle condizioni di dipendente; stato quest’ultimo che poteva durare anche tutta la vita e ed essere anche molto precario quando il lavoro veniva pagato ad opera. Dalla mia ricerca emerge che non tutti i maestri avevano una bottega propria, collaborando come dipendenti presso altri laboratori.
Nel Liber matricularum bolognese del 1294, contenente tutte le matricole delle società d’Arti cittadine, quella dei sarti è al IV posto per entità numerica con 749 iscritti, preceduta da quelle dei cordovanieri (1700), dei notai (1308) e dei beccai (752), seguita da quella dei cambiavalute (615) e dei drappieri (567). All’importante dato numerico, che non tiene conto dei molti sarti non iscritti all’Arte, non corrispose il prestigio sociale dell’arte. Nella nota legge suntuaria bolognese emanata dal Bessarione nel 1453, con la quale si intendeva rendere riconoscibili le diverse categorie sociali cittadine attraverso vesti e ornamenti femminili assegnati ad status, i sarti sono quinti di 6 categorie previste con falegnami, calzolai, salaroli, muratori, fabbri, cuoiai, barbieri, cartolai, conciatori, pescatori, cimatori, ricamatori e tintori, precedendo l’ultima categoria occupata dagli abitanti del contado e da coloro che esercitavano opera rusticalia.
La categoria artigianale dei sarti non godette infatti di un particolare prestigio sociale, nonostante siano attestati sarti con ottimi giri d’affari e facoltosi clienti, che affidavano loro materiali anche molto costosi per la confezione di lussuose vesti alla moda. Pur variando in termini di luogo e di tempo, la considerazione sociale di un’Arte richiedeva un progetto di natura politica complesso e di lunga durata. A Bologna, per esempio – città che è stata presa come perno della mia ricerca grazie al consistente materiale documentario conservato presso l’Archivio di Stato – questo processo iniziò quando fu concesso alle corporazioni di partecipare attivamente alla vita politica ed economica della città comunale, per immobilizzarsi in epoca signorile. Dai dati della mia ricerca emerge che i sarti non portarono a termine questo processo. L’organizzazione del lavoro in sartoria, che non lasciava tempo per le questioni politiche, le basse retribuzioni, i pagamenti posticipati dei clienti possono aver contribuito a non far maturare in seno all’Arte quell’ambizione sociale che avrebbe consentito l’affermazione della corporazione negli ambienti del potere”.
Come lavorava una bottega sartoriale?
“Dai documenti esaminati le sartorie appaiono come luoghi affollati da qualche apprendista e alcuni dipendenti, il cui numero era fissato dalle leggi corporative, coordinati da uno o più maestri nei periodi di massimo lavoro. Questi ultimi corrispondevano alle principali festività religiose, il Natale e la Pasqua, correlate anche alla necessità di rinnovare i guardaroba in vista dell’inverno e dell’estate. Questa suddivisione ha origine nel basso Medioevo quando perfino i termini di ciascun indumento ci informano sulla stagionalità dell’abito. Le «collezioni» Autunno/Inverno e Privamera/Estate esistevano dunque già nel basso Medioevo!
In questi periodi di intenso lavoro la corporazione disciplinava in maniera molto attenta i rapporti di collaborazione tra dipendenti e maestri al fine di poter contare sulla presenza certa di manodopera, il cui numero era molto fluttuante. Le leggi documentano comportamenti sleali tra sarti tentando di evitare la diffusa prassi di sottrarre manodopera ai colleghi per procacciarsi il maggior numero di commissioni.
Al solo maestro spettava il taglio delle stoffe, salvo eccezioni, mentre a dipendenti e collaboratori erano riservate le fasi di assemblaggio delle varie componenti delle vesti se questi ultimi erano dotati di competenze specializzate, altrimenti spettava loro esclusivamente la fase di cucitura e rifinitura delle vesti. L’elevato numero dei sarti nelle città del basso Medioevo non corrisponde ad un egual numero di maestri specializzati, perché molto numerosi erano gli artigiani dalle minime competenze sartoriali, facilmente apprendibili. I bassi compensi dei sarti determinarono la cattiva abitudine da parte di questi di trattenere i ritagli dei tessuti, così come la prassi, prevista e regolamentata dagli statuti corporativi, di portare in pegno i tessuti portati dai clienti per ricavare piccole cifre di denaro con cui finanziare altre commissioni, cominciando dall’acquisto dei tessuti stessi. Queste strategie finanziarie, molto diffuse a Bologna per esempio, rendono difficile calcolare i tempi di realizzazione per una singola veste e spiega il motivo per cui del rapporto fra tempo e lavoro non ci sono indicazioni nelle fonti consultate.
Le fonti documentano cartamodelli in tessuto e manichini di legno, così come i metodi di lavoro, ricavabili tuttavia principalmente dalle fonti materiali, perché il primo manuale completo di sartoria risale alla fine del ‘500. Nella mia ricerca un approccio di cultura materiale è stato determinante per comprendere come il sarto costruiva le vesti, così come lo studio e la combinazione di differenti fonti, ognuna delle quali ha contribuito a comporre il puzzle e fornire ipotesi interpretative che sono confluite nel libro”.
L’analisi dell’attività sartoriale e la documentazione esistente relativa alle materie prime ci aiutano a capire i meccanismi sociali ed economici legati al fenomeno moda?
“Certamente. Le fonti mostrano come le nuove abitudini connesse al desiderio di apparire migliori, al passo con i tempi, insomma moderni, avessero avuto come diretta conseguenza la richiesta di numerosi nuovi oggetti, concepiti in una costante collaborazione tra cliente e produttore. Non è da escludere che alcune idee provenissero direttamente dai produttori, vale a dire coloro che controllavano i cicli produttivi e che avevano competenze necessarie alla progettazione.
La produzione di tessuti e le innovazioni tessili a queste connesse sono strettamente legate alla richiesta di materie prime per i capi di abbigliamento: dal Medioevo le vesti furono i veicoli principali con cui comunicare la propria ricchezza, la propria dignità sociale e per la prima volta una cultura nella selezione degli oggetti da esibire. L’evoluzione dei filati, delle armature tessili, delle tinture, senza dimenticare i ricami è certamente da mettere in relazione all’accresciuta domanda di beni di lusso da ostentare soprattutto attraverso le vesti. La realizzazione di un outfit del Medioevo poteva essere un affare molto complesso e oneroso come attestano i libri di conti della nobiltà e del ricco ceto mercantile, un investimento da curare nel minimo dettaglio”.
Lusso, moda, eccessi, esistevano norme che regolavano il vestire?
“Nel corso della seconda metà del ‘200 in tutta Europa vengono emanate leggi suntuarie con lo scopo di disciplinare l’eccessiva esibizione del lusso, riservando esclusivamente ai ceti sociali più elevati di mostrare liberamente qualità e quantità di vesti e gioielli. Le leggi suntuarie, nate per contrastare gli eccessi e frenare i desideri dei nuovi ceti ricchi, non riuscirono a trattenere questi ultimi che, avendo le capacità economiche di acquisto, continuarono a trasgredire, stando a quanto si legge nei proemi delle reiterate legislazioni sui lussi. Fu per questo motivo che le autorità cittadine superarono la difficoltà accettando le violazioni a condizione che i trasgressori denunciassero e pagassero una tassa, attestata dalla cosiddetta «bollatura» delle veste incriminata. Le prime tasse sul lusso servirono dunque, seppur con qualche contraddizione, a far circolare l’economia agendo sulla vanità delle classi sociali che non intendevano rinunciare all’esibizione della propria ricchezza attraverso le vesti, segno di novità, di gusto e di una nuova cultura”.
Il ruolo della donna-sarta?
“Il lavoro delle sarte emerge con discontinuità nelle fonti. Gli statuti delle corporazioni dei sarti delle città italiane prevedevano anche maestre in sartoria, ma non mi è ancora capitato di leggere un libro di matricole con nomi femminili …. Eppure le donne lavoravano in ambito sartoriale, eccome, svolgendo soprattutto i lavori meno specializzati, occupandosene nei ritagli di tempo tra le mansioni quotidiane dedicate ad altri lavori, all’educazione dei figli e alla famiglia. Le donne operavano anche in sartoria, dove potevano essere impiegate nella presa delle misure sui corpi femminili per esempio, oppure nella progettazione e realizzazione di indumenti e accessori che devono aver anche contribuito ad inventare. Ciò è quanto si apprende da una fonte forlivese del XV secolo.
È interessante sottolineare che nell’ambito di produzione e commercio dei capi di abbigliamento le donne furono in grado di ritagliarsi spazi di lavoro e, quindi, occasioni di guadagno, favorite dalla conoscenza di esigenze e desideri delle donne. Non dimentichiamo infatti che lo stretto legame tra le donne e la moda ha origine nel basso Medioevo perché per alcune di queste la moda e le apparenze furono tra i pochi ambiti in cui fu loro possibile esprimere la propria individualità, entro comunque la convenienza sociale e il rispetto della famiglia di appartenenza”.
Umberto Maiorca