L’esercito dell’emiro Mohamed al Nazir viene sconfitto, in Andalusia, dalle truppe dei re cristiani di Navarra, Aragona, Castiglia e Portogallo, sotto il comando di Alfonso VIII, nella battaglia di Las Navas de Tolosa (16 luglio 1212). Lo scontro segnò il declino del regno degli Almohadi e il punto di svolta della Reconquista, che culminerà con la presa di Granada nel 1492.
La preparazione A Las Navas de Tolosa si affrontarono 25.000 cristiani, a piedi e a cavallo, e 30.000 fanti e cavalieri mori (altre fonti riportano 18.000 e 20.000 come cifre della forza dei due contendenti). La Spagna dell’epoca era tagliata in due, all’incirca all’altezza della divisione climatica e agricola della coltivazione dell’olivo.
A nord i regni cristiani, divisi e rissosi, sempre pronti a scaramucce tra di loro, ma in grado di fare fronte comune contro la minaccia islamica. A sud la dinastia almohade, sostenuta dal continuo afflusso di guerrieri e coloni dall’Africa, la quale dopo aver riorganizzato lo stato, aveva dato inizio ad una serie di infiltrazioni oltre il confine.
Nell’estate del 1212 un forte esercito musulmano aveva intrapreso una vera e propria invasione della Castiglia meridionale. Alfonso VIII aveva risposto concentrando le forze cristiane, dopo aver chiesto aiuto agli altri regni spagnoli, nei pressi di Toledo, per muovere verso la Sierra Morena, dove si trovava l’esercito di al Nazir, composto da truppe berbere, andaluse e arabo-magrebine.
Per arrivare a costituire l’esercito cristiano, però, era stato necessario superare le contrapposizioni fra i sovrani cristiani spagnoli, anche grazie all’azione diplomatica dell’arcivescovo di Toledo monsignor Rodrigo Jimenez de Rada e di papa Innocenzo III che concesse lo status di crociati a chi avesse partecipato all’impresa.
“Quando la gente seppe della remissione dei peccati che era garantita a quanti si univano a noi – scrisse in seguito Alfonso al pontefice – allora arrivò un gran numero di cavalieri dalle regioni oltre i Pirenei”.
La battaglia Le truppe moresche erano disposte lungo una valle della Sierra Morena, protette ai fianchi e alle spalle dalle scoscese pareti di una gola: «un migliaio di uomini poteva difenderla contro la più grande armata del mondo» scrisse Alfonso al Papa. Il terreno scelto dall’emiro, però, poco si prestava al miglior utilizzo della cavalleria leggera mora. Armati di archi e frecce i cavalieri leggeri berberi tempestavano le colonne nemiche in marcia per poi scomparire in una nuvola di polvere e tornare all’assalto sul fianco opposto. Gli arcieri musulmani, stretti nella gola con i fanti, invece, si trovarono intrappolati nella mischia con spade e pugnali e non poterono utilizzare la loro temibile arma.
Alcuni nobili e consiglieri cercarono di convincere Alfonso ai tornare indietro e cercare un valico non presidiato dai musulmani, ma il re non intese ritirarsi e volle dare battaglia, nonostante il terreno sfavorevole. Il 14 luglio, però, comparve al campo cristiano un pastore, un certo Martin Halaja, il quale condusse l’avanguardia di Alfonso, al comando di don Diego Lopez de Haro, lungo una strada di montagna, sconosciuta, fino ad aggirare l’esercito moresco e tagliando le linee di rifornimento dell’emiro.
I mori, quindi, si schierarono su un ampio fronte costituito dalla cavalleria posizionata davanti ai fanti, disposti a ranghi serrati. Alfonso rispose con una disposizione a specchio, un’unica linea di cavalieri, divisa in tre contingenti, e la fanteria di rincalzo.
Lo schieramento cristiano era molto largo, in quanto i comandanti, memori della sconfitta di Alarcos (19 luglio 1195), intendevano evitare l’accerchiamento. Il centro dello schieramento cristiano era tenuto dalla guardia del re e dai monaci guerrieri dell’ordine di Calatrava. Subito dietro erano altre truppe appiedate e i cavalieri dell’ordine di Santiago. A sinistra era posizionato Pietro d’Aragona e a destra Sancho VII di Navarra.
I due eserciti di fronteggiarono per tutto il giorno successivo, senza combattere.
La battaglia iniziò la mattina del 16 luglio, accompagnata dal suono di trombe e tamburi mori, con una serie di schermaglie e di finti attacchi, per saggiare la resistenza del rispettivo fronte nemico. All’improvviso i castigliani lanciarono un attacco alle ali moresche, facendo indietreggiare e sbandare gli uomini. Gli andalusi, a destra, rinunciarono subito a combattere e si diedero alla fuga (anche perché non ricevevano la paga da mesi), mentre i volontari africani, guerrieri senza alcuna protezione per il corpo sulla sinistra, e un contingente di berberi con i cammelli, resistettero fino a venir annientati dai cavalieri spagnoli. Al centro, però, al Nazir colpì duramente e mise in rotta i cavalieri di Calatrava, creando scompiglio e generando il timore che il fronte cedesse; ma la linea venne prontamente tenuta dai cavalieri di Santiago, dai Templari e dai picchieri castigliani. Fermato l’assalto dei musulmani, i cristiani passarono al contrattacco, iniziando a spingersi in profondità dello schieramento centrale di al Nazir. Ad un certo punto dalla giornata comparvero, all’improvviso, sul fianco destro dei musulmani, i baschi di re Sancho: all’incirca 200 uomini che avevano scalato una parete rocciosa e adesso minacciavano la retroguardia dell’emiro. Il lato destro avversario cedette di colpo.
Un diversivo che permise al conte Alvaro Nunez de Lara di lanciare l’attacco al campo trincerato dell’emiro, prendendo alle spalle i nemici e saccheggiando le salmerie. Il conte, giunto al centro del campo dell’emiro, dopo aver sopraffatto la guardia nubiana chiusa dietro una palizzata tenuta insieme da catene, smontò da cavallo e piantò il vessillo di Castiglia nel terreno, affinché tutti i combattenti lo vedessero, segno per i cristiani di vittoria e per i musulmani di sconfitta. Senza il sostegno delle ali, ormai in fuga, il nucleo dell’esercito musulmano iniziò ad indietreggiare, fino a collassare in una precipitosa fuga. Gli spagnoli inseguirono le truppe musulmane per quindici chilometri, senza fare prigionieri.
Le conseguenze La vittoria cristiana fu totale e pose le basi per la vittoriosa conclusione della Reconquista. Le fonti riportano cifre discordanti per quanto riguarda le perdite di entrambi i fronti, con evidenti esagerazioni ai fini encomiastici: 100mila caduti musulmani contro gli appena 30 del campo cristiano.
Le perdite dell’emiro furono molto alte, tanto da dover ricorrere alla richiesta di rinforzi in Africa per proteggere quello che restava del regno musulmano. In pochi, dopo aver gettato le armi per fuggire, trovarono scampo. Nella lettera scritta da Alfonso al Papa si ricorda come i soldati cristiani, per due giorni, non ebbero bisogno di raccogliere legna per alimentare i fuochi da campo, avendo a disposizione un numero gigantesco di frecce e lance moresche da bruciare.
Sul fronte cristiano le perdite maggiori furono quelle degli ordini monastico-cavallereschi: basti pensare che morirono in battaglia o per le ferite Pedro Arias, Gran Maestro dell’Ordine di Santiago, Gómez Ramírez dell’Ordine dei Templari e Ruy Díaz, Gran Maestro dell’Ordine di Calatrava.
Pochi anni dopo un cronista berbero, Ibn al-Khatib, scriveva che “i rappresentati della dinastia almohade persero forza e si divisero […], sicché le rivalità presero il sopravvento, scoppiò feroce la guerra civile e il popolo cadde tra le braccia degli infedeli”.
Umberto Maiorca