Brutale. Maledetto. In una parola, oscuro. Per tanti di noi cos’è il Medioevo se non questo? Ma fu davvero così? Assolutamente no. Fu, spesso, tutt’altro.
Una grande epoca di sperimentazioni, sociali e del potere. Di invenzioni (dagli occhiali alle note musicali). E di innovazioni. Tra tutte emergono le idee nuove del mercato e dell’economia, e la banca è il parto meglio riuscito di questo nuovo mondo della ricchezza alla riscossa.
Essa nasce da una necessità, lampante. Serve a depositare danaro, certo. Ma la rivoluzione che genera è insita nella nuova, incredibile chance che offre: di poter muovere il denaro senza farlo muovere.
Non è un paradosso, ma l’uovo di Colombo, che cambia, in maniera rivoluzionaria, la maniera di intendere il capitale. Il fenomeno di punta della grande trasformazione commerciale che anima l’Europa dal Duecento in avanti, basato su nuove tecniche di conto, di calcolo e di gestione del danaro.
Immaginate infatti d’ora in poi un mondo non più costretto a muovere ingenti quantità di danaro, difficile e pericoloso da trasportare, quasi immobile. Ma un universo mobile, aereo, fatto di leggeri e volatili pezzi di carta, con un percorso che va dalla lettera di cambio alla cambiale e al moderno assegno circolare; costruito su contabilità sempre più complesse, dominate da un’altra innovazione medievale: la partita doppia.
Nel corso di questo turbinoso ed elettrizzante XIII secolo, in Italia le banche crescono e prosperano. Non è forse questa l’epoca delle fortune improvvise e dei “facili guadagni”, come avrebbe detto Dante? Di specialisti se ne trovano in diverse città. Si muovono ancora in maniera embrionale: sono cambiavalute, prestatori, mercanti con un piede più nel commercio che nella finanza.
In Toscana però, prima che altrove, gli operatori tendono a specializzarsi, grazie soprattutto al rapporto privilegiato con la principale potenza finanziaria del tempo, il Papato, che ha assoluto bisogno di gente che sappia raccogliere e far transitare nelle sue casse le decime che la Cristianità è tenuta a versare per la sopravvivenza della Chiesa – e per la sua grandezza! -. Si muovono i Senesi, con la gran tavola dei Bonsignori. Ma meglio faranno, nel corso del Trecento, i grandi banchi fiorentini, come la joint venture dei Bardi, Peruzzi e Acciaiuoli che avvilupperanno, nei loro tentacoli, oltre il Papato, due tra le maggiori monarchie del tempo, l’inglese e di Napoli.
In una trama di crediti, debiti, franchigie, facilitazioni ed interessi che raggiunse cifre di portata clamorosa, con deficit difficilmente sopportabili per questi stati dall’assetto amministrativo e fiscale ancora fragile.
Il contesto bancario commerciale italiano non va immaginato come modesto ma assume già allora una scala europea.
I capitali si spostano da un luogo all’altro, con una facilità insospettata fino ad allora, laddove ci fosse maggiore bisogno di investimenti, con una cadenza che va dalle coste mediorientali del Mediterraneo alle città fiamminghe, all’Inghilterra della lana o alle città anseatiche, come Lubecca o Amburgo. Ma gli agganci non si limitano all’Europa. Si spingono fino al mondo musulmano e guardano, con vigore, alle ricchezze cinesi, lungo le vie della Seta fino al Catai.
Una dimensione diremmo oggi globale. Non si tratta di un azzardo interpretativo. Ne erano consapevoli gli stessi protagonisti di questo boom. Gente come il genovese Benedetto Zaccaria. Oppure i fratelli Vivaldi, che tentarono il “folle volo” cercando di raggiungere inutilmente l’Oriente attraverso la rotta occidentale che sarà poi di Colombo. O i Polo. O uomini come Francesco Pegolotti che nella overture della sua “Pratica di mercatura” traccia come primo e principale itinerario commerciale da seguire quello verso la Cina, fino a Pechino. Uno spirito nuovo anima questo tempo. I protagonisti si sentono eroici. Invincibili. Consapevoli che nessun ostacolo si contrapponesse tra loro e il successo.
Quella crisi, che si scatena nel Trecento, oggi gli storici la chiamano in tanti nomi, anche roboanti, come stagflazione. Ma manteniamoci bassi: quello che accadde fu che la macchina finanziario-commerciale si bloccò.
Il successo: un sogno in cui cadono in tantissimi, donne e uomini. Che però non avevano calcolato una cosa: che, con la banca, si genera anche il suo opposto, cioè’ la crisi della banca. Nessuno avrebbe infatti immaginato che questa macchina meravigliosa prima o poi si sarebbe inceppata. Che c’erano dei meccanismi che la gente dell’epoca pensava di governare ed invece erano ingovernabili.
Il motore si ingolfò, ingrippandosi, senza dare cenni di movimento. Questo sul lungo periodo. Nell’immediato, invece, il troppo credito garantito alle monarchie inglese e napoletana si rivelò un disastro, perché i due sovrani non avevano danaro da restituire, impegnato com’era in guerre (per esempio nella fase iniziale della guerra dei Cent’anni) o in mala gestione politica e finanziaria.
Si parla di una cifra incredibile, che superava un milione di fiorini. Conseguenza? Il fallimento della joint venture Bardi-Peruzzi-Acciauoli, incapace di far fronte al passivo di cassa e all’assalto degli sportelli da parte dei correntisti a dir poco imbufaliti. Fatto che si trascinò dietro di sé, con un indescrivibile effetto domino, tante altre banche medie, piccole, minori con un’onda che colpì una massa composita, che andava dal papa all’ultimo negoziante, con uno shock da cui ci si riprese a fatica.
Solo con una nuova rivoluzione finanziaria che comincia alla fine del Trecento ed ha magnifici artefici, come Francesco di Marco Datini, i Medici o Adamo Centurione, uno dei padri del Banco di San Giorgio.
Amedeo Feniello