Orvieto viene considerata una delle città dell’Italia centrale più importanti nella storia del catarismo.
Questo ruolo non le compete per essere stato uno dei centri di diffusione di questa eresia in Italia, dal momento che le città dove i catari avevano le loro sedi erano Firenze, Viterbo, Narni e Spoleto. Ma perché ad Orvieto la diffusione e la repressione dell’eresia produssero una serie di importanti conseguenze dal punto di vista economico, politico e religioso.
Esiste un forte legame, ad esempio, tra il riconoscimento del miracolo eucaristico di Bolsena e l’offensiva cattolica contro il catarismo che ebbe in Orvieto un luogo centrale. Gli eretici negavano infatti il dogma della transustanziazione, ovvero la presenza di Cristo nell’eucarestia, elemento centrale del miracolo. La stessa costruzione del duomo deve essere inserita, insieme ad altre motivazioni, in questa volontà di riconquista spirituale di un territorio in cui la presenza catara si era diffusa per decenni in maniera capillare, conquistando ogni ceto sociale anche se furono alcune delle famiglie più in vista di Orvieto a difendere i catari.
La repressione attuata nei loro confronti ebbe anche un determinante riflesso nel favorire l’ascesa della famiglia Monaldeschi. Questo capitolo della storia cittadina è stata tramandato da uno scritto conosciuto come “Leggenda”, ovvero Passio beati Petri Parentiis martiris, dedicato alla vita di Pietro Parenzo e redatto nel 1205 da Maestro Giovanni che era probabilmente un canonico di Orvieto.
Gli episodi si svolsero sullo sfondo dell’aspro contrasto tra il Comune e Innocenzo III per il controllo di Acquapendente. La diffusione del catarismo ad Orvieto era iniziata alla fine del 1110 da Firenze e si estese rapidamente anche per i forti sentimenti ghibellini e contrari al papato.
Il primo a propagare i germi del catarismo ad Orvieto sarebbe stato tale Ermannino da Parma a cui fecero seguito nel 1170 due predicatori fiorentini, Diotisalvi e Gottardo. Il vescovo dell’epoca, Rustico, non ebbe però piena consapevolezza del pericolo e trascurò il diffondersi del fenomeno.
I catari fecero molti proseliti fin quando il vescovo Riccardo da Gaeta, in carica dal 1178 al 1202, non condannò all’esilio alcune persone e alla morte altre. Questa drastica soluzione fu da lui adottata quando ebbe piena consapevolezza del fatto che la dottrina catara aveva fatto breccia in numerose famiglie importanti grazie all’operato subdolo ed efficace di due donne, inviate in missione ad Orvieto dai catari fiorentini, Milita da Montamiata e Giulietta da Firenze. Quando Innocenzo lanciò l’interdetto contro la città, a causa dell’invasione orvietana di Acquapendente, richiamò a Roma anche il vescovo e questo particolare lasciò campo libero agli eretici i quali presero piede e minacciarono addirittura di cacciare i cattolici.
Ad innalzare il livello dello scontro con la Chiesa giunse in città un eretico dal grande carisma, il viterbese Piero Lombardo. Fu lui ad elaborare il progetto di bandire i cattolici dalla città e trasformare la rupe in una fortezza inespugnabile controllata dai catari.
L’intervento del papa venne sollecitato da alcune famiglie orvietane, allarmate per la grande forza persuasiva di questo uomo dalla personalità magnetica e capace di esercitare un fortissimo ascendente. Da Roma venne spedito a sedare la situazione un giovane esponente della nobiltà dal carattere impulsivo e ambizioso che alcuni volevano addirittura nipote del papa, Pietro Parenzo.
Divenuto Podestà, procedette con grande energia a combattere gli eretici, iniziando a confiscare i beni appartenenti non solo ai catari, ma anche a coloro che li avevano protetti e aiutati.
Parenzo capì subito la forza dei nemici che aveva di fronte e, nel 1199, tornò per un periodo a Roma dove fece testamento e dove il papa gli concesse l’indulgenza plenaria che veniva accordata ai crociati.
La “Leggenda” racconta che, appena tornato a Orvieto, Parenzo venne catturato dagli eretici che lo rinchiusero in una capanna fuori città. Qui lo costrinsero a mangiare la spazzatura durante una parodia della messa. Quando Parenzo si rifiutò di ritrattare i provvedimenti che aveva assunto, venne colpito prima a martellate e poi con un colpo di piccone che lo uccise. Il suo corpo venne ritrovato la mattina seguente lungo la strada delle Piagge.
La reazione fu travolgente. Lo stesso papa inviò truppe in città e questa svolta militare determinò la supremazia del partito guelfo su quello ghibellino. La commozione del popolo fu grande.
Alcuni eretici o presunti tali vennero anche linciati dalla folla. Pietro Parenzo venne celebrato non solo come vittima, ma come un santo dal momento che si cominciò ad attribuirgli miracoli e prodigi di varia natura. Questa è le versione dei fatti tramandata dalla fonte ufficiale, ma i dubbi su chi abbia davvero deciso di eliminare Parenzo non sono mai mancati.
È infatti evidente che le ripercussioni legate ad un episodio di tale gravità avrebbero finito per ricadere in maniera devastante sui catari come poi accadde inevitabilmente, favorendo i cattolici.
L’incarico di Podestà venne conferito al fratello della vittima, Parenzo di Parenzo che lo ricoprì per tre anni.
La repressione messa in atto fece si che la città tornasse nell’orbita politica del papato, ma il catarismo non era affatto scomparso e nel 1268 ci fu un’azione giudiziaria su larga scala grazie alla cui documentazione possiamo farci un’idea chiara di quale fosse il rapporto tra la popolazione e l’eresia.
Una città eretica Il processo che portò alla sbarra 88 persone, 58 uomini e 30 donne, con l’accusa di eresia rappresenta uno spaccato molto interessante sulla diffusione di questo culto in città.
Il caso di Orvieto smentisce infatti l’idea di alcuni storici secondo cui il catarismo si sarebbe diffuso prevalentemente nelle classi sociali più basse. Ad Orvieto non fu affatto così. La classe dirigente della città era ampiamente legata all’eresia, non tanto perché le persone fossero interessate a cogliere le sottigliezze dottrinarie e le differenze rispetto all’ortodossia cattolica, ma soprattutto perché i perfetti e molti semplici catari avevano saputo conquistarsi il rispetto con la coerenza e il rigore dei loro comportamenti.
Certo è che il catarismo orvietano fu in larga misura anche un fenomeno politico, alimentato da ghibellinismo e interessi famigliari.
Dopo l’omicidio di Parenzo, il movimento ereticale sembrava essere stato annientato, ma si trattava solo di un’illusione.
Il fuoco covava sotto la cenere e un’ondata eretica si manifestò nuovamente con grande vigore nel 1240, in coincidenza con la campagna militare nell’Italia centrale di Federico II che arrivò a minacciare anche Orvieto, a dimostrazione di quanto fosse stretta la sovrapposizione tra catarismo e ghibellinismo.
Furono anni di grandi scontri all’interno della città tra i sostenitori dell’imperatore e del papato. Non è un caso se molte della famiglie ghibelline più in vista come i Ricci, i Tosti, i Lupicini e i Miscinelli erano complici dell’eresia.
La predicazione eretica aveva tuttavia conquistato e convinto una parte non trascurabile del ceto dirigente cittadino, anche quello che non aveva nulla a che vedere con il ghibellinismo.
I Filippeschi, la maggior famiglia ghibellina, non furono ad esempio coinvolti nel processo, né i Della Greca o i della Tasca.
Domino Rainiero, la personalità di maggior spicco tra i condannati nel processo agli eretici, era un nobile molto ricco che non aveva nessun rapporto con i ghibellini ed era anzi imparentato con i Monaldeschi. Questo per dire che l’azione dell’Inquisizione non deve essere considerata come la reazione strumentale della Chiesa contro i ghibellini. Non si trattò, insomma, di un processo dalle finalità politiche.
L’Inquisizione che aveva la propria sede nei sotterranei della chiesa della Misericordia, un luogo che ancora oggi mantiene inalterato il suo sinistro aspetto, operò con due francescani, uno dei quali orvietano.
Le sentenze dell’Inquisizione venivano lette e pubblicate nella chiesa di San Francesco “nel luogo dei frati Minori” di fronte ad un pubblico di uomini e donne appositamente convocati dall’inquisitore.
Un altro personaggio molto ricco e in vista come Bivenio Blasii ebbe la casa demolita per ritorsione.
Gli antichi documenti ci fanno rivivere anche la vicenda di una governante in servizio nella casa, tale Donna Verdonella. Dopo essersi gravemente ammalata, questa donna convinse la sua padrona ad andare a cercare due patari affinché le impartissero il sacramento del consolamentum. Nel processo del 1268 si indagò sull’appartenenza alla setta eretica e sul sostegno fornito ad essa a partire dalla fine del 1100 fino ad allora; per questo motivo solo 61 persone erano ancora in vita all’epoca in cui fu istruito il processo.
L’azione degli inquisitori fu spietata, alla fine ci furono molte condanne ed una serie di ingenti confische di beni; non solo, ma le cronache giudiziarie riferiscono di almeno un paio di casi in cui gli inquisitori fecero riesumare anche le salme di persone sospettate.
Questa sorte toccò ad un personaggio del calibro di Amideo Lupicini che era stato Rettore nel 1262 ed aveva svolto un delicato incarico diplomatico per stringere l’armistizio con Siena così come a Jacopo Arnoldi che nel suo palazzo aveva ricevuto perfetti e perfetta, dal momento che anche le donne potevano ricoprire incarichi di vertici nell’organizzazione molto gerarchizzata dei catari.
Quest’ultimo particolare non deve essere considerato irrilevante per comprendere l’avversione viscerale nutrita da Innocenzo III nei confronti di questo movimento religioso alla luce dell’impostazione radicalmente maschilista che la Chiesa aveva ormai assunto dopo aver cancellato del tutto l’esperienza delle prime comunità cristiane in cui le donne avevano, al contrario, un ruolo importante e spesso di primo piano.
Chi erano gli altri condannati? Tre di loro erano grandi prestatori di denaro a cui furono demolite anche le case. Bivenio Blasii aveva anche costruito una possente torre fortificata per resistere agli inquisitori. Simeone Lanarolo aveva una grande manifattura di lana. Dagli atti del processo si apprende che aveva insegnato ad un simpatizzante come adorare un perfetto, aveva consentito che il consolamentum venisse amministrato in casa sua ed aveva recuperato il corpo senza vita di un perfetto. Anche la sua casa venne abbattuta.
La repressione degli inquisitori non portò tuttavia alla cattura di alcun perfetto. Orvieto, per un po’ di tempo, cercò di barcamenarsi tra papato e impero, anche in conseguenza delle sue divisioni interne, ma quando Federico II nel 1243 mise sotto assedio Viterbo, Orvieto inviò rinforzi ai viterbesi.
Fu, peraltro, sulle ceneri di quell’assedio fallito che Viterbo passò definitivamente sotto il potere della Santa Sede, contraddicendo la propria storia.
Per rafforzare e cercare di rendere irreversibile questa clamorosa inversione di tendenza politica venne incentivato il culto popolare di santa Rosa, ben presto trasformata in un potentissimo simbolo identitario di Viterbo ed elemento fideistico di ancoraggio al papato.
Claudio Lattanzi
Claudio Lattanzi, giornalista, saggista e editore è l’autore del libro Orvieto nel Medioevo. Ascesa e declino (INTERMEDIA Edizioni, € 13,50).