L’eresia di Fra Dolcino

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L'attore Ron Perlman nel film  "Il nome della rosa" è Salvatore, un frate ritardato in odore di eresia.

L’attore Ron Perlman nel film “Il nome della rosa” è Salvatore, un frate ritardato in odore di eresia.

A dispetto del nome era tutt’altro che docile, fra Dolcino da Novara, l’eretico condottiero e “fricchettone”, cantore della libertà dalle ricchezze ma anche dalle convenzioni sociali, che più di ogni altro ha ispirato la letteratura degli ultimi due secoli. Umberto Eco – che scelse due dei protagonisti de “Il nome della rosa” come seguaci del frate – ha tirato fuori il millenarista lombardo dal Medioevo facendolo entrare nell’immaginario contemporaneo col suo grido folle e ascetico, feroce e spirituale: “Penitenziagite!”.

Nato a Prato Sesia, in provincia di Novara nel 1250, si chiamava Davide Tornielli ed era figlio di un prete, anche se in realtà tutti i suoi dati anagrafici sono avvolti nel mistero e nell’incertezza, data la scarsità di fonti oggettive che lo riguardano. Come tanti altri eretici dell’Antichità e del Medioevo, infatti, conosciamo Dolcino soltanto attraverso i racconti dei suoi nemici e non tutte le informazioni, di conseguenza, sono attendibili.

Quel che è certo, invece, è che nel 1291 Dolcino entra a far parte del movimento degli Apostolici fondato da Gerardo Segarelli, un predicatore di una decina di anni più vecchio, che dopo essersi accostato all’ordine francescano ed essere stato rifiutato per il suo eccessivo rigore, aveva distribuito tutti i suoi averi ai poveri e fondato un nuovo movimento di ispirazione francescano-spirituale, che aveva assunto il nome di “Apostolici”, proprio perché voleva riprendere la vita della prima comunità cristiana formata dagli apostoli, in cui tutti i beni venivano messi in comune vivendo in sostanziale povertà.

Resti medievali nei dintorni di Prato Sesia (Novara), dove nacque Dolcino.

Resti medievali nei dintorni di Prato Sesia (Novara), dove nacque Dolcino.

Paenitentiagite, quia appropinquabit regnum caelorum” (“Fate penitenza, perché il Regno di Dio arriverà”) è il grido di battaglia degli Apostolici, reso celebre, anch’esso dal romanzo “Il nome della rosa”, dove viene ripetuto da due monaci dell’abbazia del delitto – Remigio da Varagine e Salvatore – che si identificano così come ex seguaci di Dolcino, finendo bruciati sul rogo per volontà del domenicano Bernardo Gui.

Con scelte tipicamente francescane (ma non attuate, al tempo, dai frati francescani) come la povertà totale, il rifiuto di ogni gerarchia, l’uguaglianza tra uomini e donne e la comunione dei beni, gli Apostolici avevano catturato la simpatia dei fedeli mettendosi di fatto in concorrenza con gli stessi Francescani e con i Domenicani, arrivando a raccogliere – nelle città – più offerte di loro.

In un primo tempo gli Apostolici erano rimasti nell’ortodossia e si erano anche rivolti ad un protonotario pontificio per sapere quale fisionomia istituzionale avrebbero dovuto assumere. Quando il Concilio del 1276, però, aveva sconfessato tutte le congregazioni religiose non autorizzate, proibendo nuove forme di vita religiosa, gli Apostolici avevano finito per allontanarsi sempre più dalla Chiesa istituzionale.

Segarelli e i suoi compagni conducevano una vita fatta di digiuno e preghiera, lavorando o chiedendo la carità, senza praticare il celibato; la cerimonia di accettazione dei nuovi seguaci prevedeva che pubblicamente si mostrassero nudi come aveva fatto San Francesco.

Se però Francesco d’Assisi sosteneva che l’obbedienza al Papa e ai preti in generale doveva essere incondizionata – e che lui avrebbe sempre obbedito e baciato le mani anche ai preti peccatori – gli Apostolici affermano il diritto e il dovere di ribellarsi anche allo stesso papa quando si allontanava dai precetti evangelici, rivendicano il diritto dei laici a predicare (Francesco, invece, aveva accettato di essere ordinato diacono), prefigurando l’imminenza del castigo celeste provocato dalla corruzione dei costumi ecclesiastici e la necessità di vivere in assoluta povertà.
Significativamente, finirono per essere accusati di depredazioni e rapine, anche sproporzionate rispetto a quelle necessarie a garantire la loro semplice sopravvivenza.

D’altra parte, forti del detto paolino “tutto è puro per i puri”, praticavano una sessualità promiscua. Insomma, dalle orme di San Francesco – che volevano seguire in modo più radicale – diventarono una sorta di movimento hippy ante litteram. Cacciati anche dalle diocesi dove erano stati accolti con favore (come Parma), gli Apostolici vennero sconfessati ripetutamente dalla Chiesa, processati per eresia e condannati in modo definitivo, nel 1290, da Niccolò IV che paradossalmente fu il primo papa francescano.

Segarelli, dopo l’ennesima condanna, bruciò sul rogo, a Parma, nel 1300.
Dolcino era entrato a far parte del movimento degli Apostolici nel 1291. Con tutta probabilità non pronunciò mai i voti di castità, povertà e obbedienza.

La definizione di “frate” non sta ad indicare l’appartenenza a un ordine religioso, quanto piuttosto l’uso di chiamarsi “fratello” nell’ambito del movimento ereticale. L’attività di Dolcino si svolse innanzitutto nella zona del lago di Garda, con un soggiorno accertato presso Arco di Trento. Qui, nel 1303, conobbe la bellissima giovane Margherita Boninsegna che diventò la sua compagna e lo affiancò nella predicazione.

Dolcino si rivelò dotato di grande fascino e comunicativa: sotto la sua guida, il numero degli Apostolici tornò ad aumentare.
I seguaci di Davide Tornielli diventarono più di mille. La loro aperta e crescente ostilità verso Roma, si radicalizzò sotto il pontificato di Bonifacio VIII.

L’elezione del cardinale Benedetto Caetani, appartenente a una delle famiglie più potenti dell’aristocrazia romana, aveva fatto seguito, nel 1294, alle discusse dimissioni di papa Celestino V, che fino a quelle, nel 2013, di Benedetto XVI rappresentarono un caso unico nella storia della Chiesa.

Papa_Celestino_V

Celestino V (nato tra il 1209 e il 1215 e morto il 19 maggio 1296) era originario del Molise ed è sepolto a L’Aquila. È stato il 192º Papa della Chiesa cattolica, pontefice dal 29 agosto al 13 dicembre 1294.

Celestino, al secolo Pietro Angelerio, era stato un celebre eremita, conosciuto come Pietro dal Morrone: la sua elezione provocò un’ondata di speranza e di entusiasmo paragonabile forse solo a quella che, ancora una volta, a ottocento anni di distanza, ha generato nei credenti papa Francesco. “Finalmente avremo un papa che crede in Dio” fa dire a una popolana Ignazio Silone in “L’avventura di un povero cristiano”.

Estraneo alle contese delle famiglie nobili romane e alla corruzione che regnava nella curia, Pietro aveva fama di santità: fu scelto dai cardinali per uscire da una situazione di stallo che durava da quasi due anni.
Tentò di portare il carisma e la povertà francescana sul trono di Pietro. Anche il rapporto con i movimenti pauperistici come i Francescani spirituali e gli Apostolici, quindi, cambiò radicalmente sotto il suo pontificato. Per questo, quando si dimise per lasciare spazio al cinico e spietato Bonifacio VIII, si scatenò una guerra che vide l’alleanza delle famiglie romane ostili ai Caetani e dei movimenti pauperistici, nei confronti dei quali era subito ripresa la persecuzione.

Dolcino elaborò una sua dottrina teologica che – sulla scia di Gioachino da Fiore – divideva la storia del mondo in diverse età: la prima era quella dell’Antico Testamento, dei patriarchi e dei profeti; la seconda quella di Gesù Cristo e degli Apostoli, età della santità e della castità; poi era venuta l’età segnata dal potere e dalla ricchezza della Chiesa, per far fronte ai quali era arrivato Benedetto, riprendendo l’antica povertà. Ma secondo Davide Tornielli era stato tradito – a sua volta – dallo sviluppo del monachesimo, per contrastare la cui ricchezza erano poi arrivati Francesco e Domenico.
Giunti alla fine della terza età, occorreva quindi convertirsi agli insegnamenti degli apostoli, ma perché questo avvenisse era necessario che tutti i chierici, i monaci e i frati morissero di morte “cruellissima”.

Dolcino annunciò che il tempo della Chiesa infedele e corrotta stava per finire. In attesa della venuta della Chiesa santa, però, quella attuale andava distrutta.
Per questo, forte del successo che riscuoteva in tutta la Valsesia dove aveva ormai più di 4mila seguaci, scatenò una vera e propria rivoluzione armata con l’obiettivo di riscattare gli abitanti di quelle terre dalle condizioni di infinita povertà in cui versavano e nel 1304 occupò la regione, grazie al sostegno di Matteo Visconti. La Valsesia divenne così il luogo dove le utopie delle predicazioni dolciniane trovarono una concretezza e un’attuazione politica.

Una immagine del Monte Rubello

Monte Rubello (Alpi biellesi), dove si rifugiarono i dolciniani assediati dalle forze armate del vescovo di Vercelli.

Abbandonati da Visconti, i dolciniani il 10 marzo 1306 si arroccarono sul Monte Rubello, nel Biellese, dove tentarono di resistere all’assedio di Raniero degli Avogadro, vescovo di Vercelli, che – forte delle milizie armate radunate del Novarese – bandì una vera e propria crociata contro Davide Tornielli e i suoi seguaci.

I resistenti, in un primo tempo, furono soccorsi dalla gente del luogo, che fornì loro viveri e assistenza. L’esercito vescovile rispose con vere e proprie razzie verso la popolazione che finì per abbandonare Dolcino e i suoi seguaci quando anche i “frati” iniziarono a saccheggiare i centri abitati e a requisire i beni di prima necessità.

Rimasti isolati, i dolciniani capitolarono. Il 23 marzo del 1307, le truppe di Raniero riuscirono a penetrare nel fortilizio fatto costruire da Dolcino, dove ancora, in modo disperato, resistevano gli ultimi superstiti di un gruppo ormai falcidiato. Secondo fonti di epoca successiva, fu terribile lo spettacolo che si presentò agli occhi degli assalitori: i dolciniani, per lottare e sopravvivere, arrivarono a cibarsi dei resti dei compagni morti.

La cattura di Margherita e fra Dolcino, affresco di Antonio Ciancia da Caprile, 1867, presso la Chiesa Matrice SS. Quirico e Giulitta di Trivero.

La cattura di Margherita e fra Dolcino, affresco di Antonio Ciancia da Caprile (1867, Chiesa Matrice SS. Quirico e Giulitta di Trivero).

Quasi tutti i prigionieri vennero passati per le armi, tranne Dolcino, Margherita e il luogotenente Longino da Bergamo. Dolcino venne processato a Vercelli e fu condannato a morte. L’Anonimo Fiorentino (uno dei primi commentatori della “Divina Commedia”) raccontò che Davide Tornielli rifiutò di pentirsi e anzi annunciò la sua risurrezione il terzo giorno dopo la morte.

Margherita e Longino vennero arsi vivi sulle rive del torrente Cervo, il corso d’acqua che scorre vicino a Biella, dove la tradizione identifica ancora una sorta di isolotto detto appunto “di Margherita”. Un cronista annotò che Dolcino, costretto ad assistere al supplizio dell’amata, dava “continuo conforto alla sua donna in modo dolcissimo e tenero”.

L’esecuzione di Dolcino fu pubblica e esemplare: secondo Benvenuto da Imola (un altro antico commentatore dantesco), venne condotto su un carro attraverso la città di Vercelli, torturato a più riprese con tenaglie arroventate. Poi gli vennero strappati il naso e il pene. Dolcino sopportò tutti i tormenti senza gridare né lamentarsi, fino a che fu issato sul rogo e arso vivo.

Prima di morire, il millenarista ribadì le sue teorie in una lettera, annunciando come imminente il tempo finale in cui si sarebbe ristabilito finalmente l’ordine e la pace dopo le degenerazioni della Chiesa. Alcuni teologi della Riforma protestante vedranno in Dolcino un loro antesignano e nella diffusione della Parola di Dio legata alla liberazione del nord Europa. I commentatori laici ne faranno invece, nel XX secolo, un precursore del Socialismo.

Dante ricorda Dolcino nella Divina Commedia nel canto XXVIII dell’Inferno:

«Or di’ a fra Dolcin dunque che s’armi,
tu che forse vedra’ il sole in breve, s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve »

Dante colloca Dolcino nella bolgia dei seminatori di discordie e degli scismatici: l’azione della “Commedia” è ambientata nel 1300, quando il frate era ancora vivo. Il grande poeta non lo incontra durante la sua visita all’Inferno: è Maometto, che si trova in quella stessa bolgia, a preannunciargli il suo arrivo. Si tratta di una delle numerose profezie “post eventum” che Dante inserisce nel poema per poter citare personaggi ancora viventi nell’anno 1300 o fatti posteriori a tale data (ma già avvenuti, ovviamente, nel momento in cui egli scriveva).

Il cippo che ricorda Fra Dolcino, sul monte Rubello (foto: Ceragioli).

Il cippo che ricorda Fra Dolcino, sul monte Rubello (foto: Ceragioli).

Nel 1907, per il seicentesimo anniversario della morte di Dolcino, alla presenza di una folla di diecimila persone riunitesi sui luoghi dell’ultima battaglia, un obelisco alto dodici metri fu eretto in memoria dei dolciniani per iniziativa di Emanuele Sella, letterato ed economista che vantava trascorsi in seno al socialismo.

Non a caso nel 1927 l’obelisco viene abbattuto da un gruppo di fascisti per essere ricostruito, con dimensioni più ridotte, nel 1974 alla presenza di Dario Fo e Franca Rame.

Da allora, ogni anno, nella seconda domenica di settembre, viene organizzato un convegno dolciniano e una cerimonia commemorativa nei pressi del cippo. Fo e Rame, nel 1977, inserirono la leggenda del frate nel loro “Mistero Buffo”.

La storia di Dolcino e Margherita è raccontata anche in uno degli episodi di “Cantalamappa” di Wu Ming.

Arnaldo Casali