È passato alla storia per via di un asino che non seppe decidersi. Ma Giovanni Buridano andò ben oltre il leggendario paradosso che gli è stato attribuito e può essere considerato a tutti gli effetti uno di quei giganti sulle cui spalle siamo saliti per vedere più lontano.
Nato alla fine del XIII secolo, l’accademico francese ha posato una delle pietre angolari della Fisica moderna: con la teoria dell’impetus, versione antesignana del primo principio della Meccanica classica, ha inaugurato il concetto di moto per inerzia.
Come nell’accezione comune del termine, anche nel campo delle scienze l’inerzia identifica uno stato di inattività o, più precisamente, di “non cambiamento di attività” e in generale viene definita inerzia “la tendenza della materia a non modificare il suo stato di quiete o di moto”. E se oggi questo concetto lo consideriamo un assioma, l’idea rappresentò una svolta eccezionale ai tempi di Buridano.
Dopo di lui, bisognerà aspettare due secoli per trovarne, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei, una descrizione analitica. E a formalizzarlo nell’enunciato del primo principio della Meccanica sarà Isaac Newton dopo altri cinquant’anni, con i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica.
Buridano dunque, era un tipo che precorreva i tempi. C’è anche da dire che gli toccò la gran fortuna di avere per maestro un pilastro della filosofia medievale: Guglielmo di Ockham. E Giovanni seguì le orme del suo mentore. Studiò filosofia e fu con la logica, uno degli strumenti più affilati di questa dottrina, che arrivò a teorizzare l’impetus e il concetto di inerzia.
Le sue osservazioni si basavano su studi precedenti, in particolare sui lavori di Aristotele, nei quali Buridano non riusciva a prendere per buona la teoria secondo la quale sarebbe stato il mezzo (e quello per eccellenza è l’aria), a far proseguire il moto di un oggetto dopo la spinta iniziale. Aristotele infatti era convinto che l’aria, per mezzo di piccoli vortici, continuasse a spingere un corpo quando l’impulso della spinta iniziale terminava. Ma Giovanni argomentò che era piuttosto la spinta, che definì impetus, a garantire la prosecuzione del moto in assenza di resistenze.
E aggiunse che l’impetus avrebbe continuato a muovere la materia fino a che fattori come la resistenza dell’aria non avessero fatto cessare il movimento. Ed è proprio questo stato di permanenza che ha condotto gli storici della scienza ad attribuire a Buridano la prima attestazione del principio d’inerzia. Il filosofo, infatti, spiega che se la qualità permanente dell’impetus è irrealizzabile a livello di fisica sublunare, è invece concepibile nel mondo celeste: l’impetus che Dio impartisce alle sfere celesti può durare in maniera indefinita, perché il moto dei cieli non incontra resistenze di sorta.
Il concetto di impetus quindi, non viene applicato solo a una tipologia di fenomeni. Al contrario, acquista una valenza universale e Buridano lo utilizza per descrivere diversi tipi di eventi fisici e cosmologici altrimenti inspiegabili. Ed è per questo motivo che lo applica sia nel commento alla Fisica aristotelica che in quello al De caelo.
L’idea di forza impressa è scelta dal maestro parigino per spiegare anche un altro fenomeno, quello dell’accelerazione dei corpi in caduta libera: Giovanni rifiuta la teoria di Aristotele per cui i corpi aumenterebbero la loro velocità di caduta con il progressivo avvicinarsi alla superficie terrestre. Il motivo dell’accelerazione va invece ricercato nei progressivi incrementi di impetus, impressi al corpo dalla sua stessa gravità.
Buridano usa il concetto di forza impressa anche per spiegare il moto delle sfere celesti. A causare il moto perpetuo dei cieli non sono delle intelligenze angeliche, ma la presenza nelle sfere di un impetus impartito da Dio nell’atto della creazione. È questo che consente la prosecuzione del moto ed elimina la necessità di introdurre altre cause efficienti nel meccanismo del movimento celeste.
Il maestro ritiene l’impetus valido anche per confutare la teoria secondo la quale la Terra possa compiere una rotazione giornaliera attorno al proprio asse. Solo in questo ambito quindi, rimane saldamente ancorato alla concezione aristotelica del cosmo.
Resta curioso l’iter accademico di Giovanni che, quando non ricoprì la carica di Rettore all’Università di Parigi (nel 1328 e poi ancora 1340) preferì mantenere la cattedra di Maestro della facoltà delle Arti, piuttosto che indirizzarsi verso insegnamenti più scientifici.
Fu un intellettuale versatile e affrontò vari ambiti filosofici. Oltre ad aver commentato diverse opere di Aristotele (oltre alla Fisica e al De Coelo, anche la Metafisica, l’Etica, il De Anima e la Politica) produsse anche lavori propri, come il Summulae de dialectica (o Summa logicae) e nel campo più squisitamente filosofico affrontò la disputa sui concetti universali e accolse il linguaggio della tradizione nominalista, nel quale conservò comunque un realismo di stampo più nettamente aristotelico.
E forse è per questo che i primi studi sulla teoria dell’impetus sono arrivati solo nella seconda metà dell’Ottocento. Pierre Duhem (1861-1916), storico della scienza, fisico e filosofo francese che ha dedicato grandi energie a tracciare un ricco quadro dei progressi scientifici avvenuti durante il Medioevo, nella monumentale opera Études sur Léonard de Vinci ha approfondito il concetto buridaniano di impetus e ha mostrato come la meccanica del magister piccardo abbia aperto la strada alle riflessioni galileiane e alla nascita della scienza moderna. Dopo di lui, altri studiosi si sono interessati alla scienza di Buridano e gli è stato infine riconosciuto il ruolo di degno precursore di Galileo e delle scoperte della Meccanica moderna.
Quanto alla storia dell’asino che, in mezzo a due fasci identici di fieno, morì di fame per l’incapacità di fare la sua scelta, l’attribuzione a Buridano resta molto dubbia. L’aneddoto non si trova nelle sue opere. Più probabilmente, è una invenzione dei suoi contemporanei per ironizzare sulla versione di libertà del maestro francese, che si ispirava al nominalismo di Ockham.
Per Buridano “voluntas est intellectus et intellectus est voluntas”, quindi qualunque bene si presenti al nostro intelletto deve determinare il volere. La sola libertà possibile è la facoltà di sospendere l’assenso, per compiere un nuovo esame e conformare meglio l’azione ai fini della natura umana. In questo, per Buridano, consiste la moralità.
Comunque sia, la morale dell’asino più celebre della Storia piacque anche a Dante, che la citò addirittura nel Paradiso: «intra due cibi, distanti e moventi – d’un modo, prima si morria di fame – che liber uom l’un si recasse ai denti» (Par., IV, 1-3).
Daniela Querci