Una fantasia che rispetta la Storia. È in libreria L’uomo dalla barba blu. Gilles de Rais e Giovanna d’Arco nel labirinto delle menzogne e delle verità (Giunti, 2020). Un appassionante romanzo sulle fosche vicende di un serial killer del primo Quattrocento: maresciallo di Francia, barone di Laval, signore di una catena di castelli tra Bretagna, Vandea e Poitou, compagno fedele di Giovanna d’Arco ed eroe della guerra contro gli inglesi. La vera storia di Gilles de Rais, accusato di aver ucciso decine e decine di bambini, è ancora più feroce di quella di “Barbablu”, il terribile personaggio della fiaba di Perrault, che si ispirò a quelle tragiche vicende. Una leggenda nera. Un processo infamante. E un retroscena politico sconosciuto ai più.
Questa è una vecchia storia terribile. L’hanno raccontata già in tanti: ma sempre tradendola, manipolandola, stravolgendola. L’hanno trasformata ora in un racconto agiografico, roba di santi e magari di miracoli; ora in una fiaba misteriosa e crudele; ora in una cronaca irta di fatti di sangue, di contratti notarili falsificati, di eredità contestate, di lupi travestiti da agnelli e di lupi veri.
Parliamo di un tempo lontano che, pure, ha straordinarie analogie con il mondo di oggi. In questi primi anni del XXI secolo il mondo sta ancora vivendo una lunga, dura stagione di conflitti avviata nel 1914, in quella “Prima guerra mondiale” che ormai ci appare come la fase iniziale di un solo, lungo braccio di ferro tra un blocco eurocentrale autoritario opposto a un mondo russo autocratico e a un Occidente democratico divisi, lontani eppure alleati fra loro. Un conflitto che non si è esaurito nella “guerra dei Trent’anni” 1914-1945, ma i postumi del quale, proiettati sul Vicino Oriente, sull’Asia, sull’Africa e sull’America latina, proseguono ancora oggi. Stiamo vivendo, dal fatale colpo di pistola di Sarajevo ai giorni nostri, un’interminabile, nuova “guerra dei Cent’anni” che ha anzi ormai valicato i limiti di durata del secolo. Così oggi non era troppo diverso nemmeno allora.
Seicento anni or sono, più o meno, l’Europa è ancora sconvolta da una guerra che dura ormai dalla metà del Trecento e non accenna a estinguersi. La posta in gioco è davvero altissima: nientemeno che la corona di Francia, contesa tra i due rami della medesima dinastia, quella capetingia.
Nel 1328 muore Carlo IV. Suoi illustri antenati sono stati il glorioso san Luigi ma anche il cupo Filippo IV, padre del re ora scomparso. Ai sensi della “Legge salica” non c’è alcun dubbio: la corona deve andare al pretendente di sesso maschile più prossimo; ma Carlo non ha avuto figli e pertanto il designato è Filippo di Valois, cugino del defunto, che ascende al trono col nome di Filippo VI. Tuttavia, a rivendicare i propri diritti di successione insorge il giovane Edoardo III, re d’Inghilterra e figlio della principessa Isabella, sorella di Carlo IV. Il sovrano deceduto sarebbe quindi zio del pretendente inglese: la linea di parentela è femminile, ma la parentela in sé è più prossima.
D’altronde, fin dall’XI secolo i sovrani d’Inghilterra altro non sono che dei vassalli dei re di Francia per le terre che posseggono oltre la Manica. E, nonostante con la pace di Parigi del 1259 siano stati costretti a rinunziare a Normandia, Maine, Angiò e Poitou, restano pur sempre vassalli del re di Francia in quanto duchi di Guienna, ovvero d’Aquitania, nell’estremo sud-ovest del regno.
In un primo tempo Edoardo finge d’accettare la scelta dei giuristi che a Parigi si erano pronunziati a proposito della successione. Ma qualche anno dopo, nel 1339, cogliendo al volo l’opportunità di un’ennesima rivolta nelle Fiandre entra in conflitto contro Filippo VI per strappargli la corona. Va da sé che non è per nulla improbabile che, a fomentare quei tumulti, sia stato proprio lui. L’Inghilterra è del resto molto legata alle città fiamminghe, le cui fiorenti manifatture hanno bisogno dell’ottima lana inglese per confezionare i loro splendidi e ricercati tessuti.
Nessuno poteva certo allora immaginarlo, ma è cominciata così una guerra tanto lunga da esser detta “guerra dei Cent’anni”. In realtà sono stati un po’ di più: il conflitto si sarebbe concluso infatti definitivamente solo nel 1453.
È un tempo durissimo, anche per il clima: il peggioramento già avviato fin dall’inizio del Trecento sarebbe culminato nella “piccola era glaciale”, tra la fine del Cinquecento e il Settecento. Vi parleremo di tempi di carestie e pestilenze, di rabbia e vendetta, di paura e superstizione, di brevi torride estati devastate dalla pestilenza e di lunghi gelidi inverni di fame, quando i lupi si nutrivano di vento.
In questa Francia del XV secolo, sconvolta dalla guerra dei Cent’anni, hanno luogo le drammatiche vicende di una contadina-pastorella della regione dei Vosgi presentatasi d’incanto come vergine guerriera; e quelle di un cupo ed enigmatico gran signore bretone, un bel cavaliere spietato in battaglia e tenebroso nel cuore. Sono destinati a morire della stessa orribile morte, a distanza di un decennio circa l’una dall’altro, prima lei a Rouen di Normandia quindi lui a Nantes di Bretagna: Giovanna la Pulzella, detta Giovanna d’Arco, e Gilles de Montmorency-Laval, sire di Rais.
Le vite dei due giovani avrebbero potuto magari unirsi: vivono invece solo una breve, feroce stagione assieme, nel nome della fede nel loro Dio e dell’amore per il loro re, Carlo VII, che avrebbe tradito entrambi. Due vite divorate l’una dopo l’altra dalle fiamme d’una giustizia che pretende di essere divina.
Gilles de Montmorency-Laval nasce fra 1404 e 1405 nella Torre nera del castello di Champtocé-sur-Loire, dimora del nonno materno Jean de Craon. Figlio di Guy II de Laval-Rais e di Marie de Craon, inalbera a sua volta i titoli di barone di Rais e conte di Brienne. È imparentato con tutte le grandi famiglie della Francia occidentale. Giovanna vede invece la luce a Domrémy in Lorena, nei Vosgi, pochi anni dopo, intorno al 1412, in una famiglia non umile ma comunque appartenente al popolo.
I due hanno dunque avuto un’infanzia assai diversa. Una vita di villaggio, spesso scossa dalle vicende belliche che minacciavano la zona ma segnata anche dalle crisi mistiche di una ragazzina, quasi una fanciulla, alla quale strane voci da lei ostinatamente identificate con quelle dell’arcangelo Michele e delle sante Margherita e Caterina parlavano del suo destino e di quello della Francia.
Dal canto suo, Gilles resta presto orfano di padre; ad assumerne la tutela prendendolo in custodia sarà il nonno Jean de Craon, che nel 1415 ha perduto il suo erede maschio in guerra, nella battaglia di Azincourt tra Carlo VI e Enrico V d’Inghilterra. Nonno e nipote sono stati direttamente coinvolti nella guerra, schierati a fianco della nobilissima dinastia dei Monfort di Bretagna.
Nel 1420, cinque anni dopo il fatale fatto d’arme, i due regni al di qua e al di là della Manica, Francia e Inghilterra, si riuniscono con il trattato di Troyes in un solo regno sotto lo scettro del valoroso vincitore, Enrico V d’Inghilterra. Mediatore del progetto è il più grande e saggio signore di Francia e d’Occidente, Filippo detto “il Buono”. Sembra in quel momento che la lunga guerra debba finire: ma il “delfino” Carlo, principe ereditario dello sconfitto Carlo VI di Francia, si oppone alla volontà del padre che ha accettato di abdicare. Pochi aristocratici lo seguono: fra questi Jean de Craon e suo nipote, i quali peraltro sono divenuti una specie di banditi che si approfittano del caos di questi anni.
Ma non sono banditi qualunque. Cercano anche di farsi una cerchia di alleati e sfruttano a tale scopo lo strumento dell’unione nuziale. Gilles si fidanza con Catherine, figlia di Miles II de Thouars, che è anche sua cugina. Il legame così contratto viene però dichiarato nullo in quanto incestuoso, dato il troppo stretto rapporto di parentela fra i due giovani: allora Gilles ricorre a un antico stratagemma, rapisce la fidanzata e la sposa nel 1420. Le nozze finiscono col venir convalidate e portano a Gilles grandi ricchezze.
Nel 1422 muoiono però sia Enrico V re di Francia e d’Inghilterra sia lo spodestato Carlo VI: a questo punto, la rinnovata questione successoria oppone il delfino Carlo, che ha ovviamente impugnato l’accordo di Troyes, al duca di Bedford, fratello di Enrico V, che rappresenta in quanto reggente i diritti del piccolo Enrico VI sulla testolina del quale – ha appena dieci mesi – gravano ben due corone.
Nel 1427 Gilles de Rais ha ventisette anni e si trova a ricoprire importanti incarichi nell’esercito del delfino, conseguendo diverse vittorie. Tuttavia l’anno successivo gli inglesi scatenano un’offensiva; e, dopo aver a lungo esitato tra Orléans e Angers, decidono di porre l’assedio alla prima di queste due città che, chiave del medio corso della Loira sorge a nord del grande fiume, sulla sua riva destra, a guardia del solido ponte che unisce le due sponde: è pertanto una sentinella avanzata del delfino Carlo, detto sprezzantemente il “re di Bourges” in quanto signore solo di poche terre a sud della Loira. Se gli inglesi s’impadronissero di Orléans, tutto il suo fragile dispositivo di difesa crollerebbe.
È in tale contesto che entra in scena Giovanna d’Arco.
Questo racconto, dall’aspetto coscientemente labirintico (il labirinto della storia, che sembra avere molti esiti e forse è in realtà priva di esito; che presenta troppe verità e forse manca di Verità vera), è stato concepito alla maniera di un rosario mariano: i suoi tre “misteri” – il gaudioso della santità di Giovanna, il glorioso dello splendore mondano di Gilles e della sua vita principesca, il doloroso delle pene e delle miserie ch’essi nascondono e della fatica che costa lo scontarle – si snodano ciascuno in cinque capitoli, tanti quanti le “poste” di un rosario. A ogni capitolo, come a ogni giorno nella vita di ciascuno di noi, basta la sua pena: la vera sfida sta nel trovarne il complessivo senso.
Nel nostro caso, forse, il rovesciamento del giudizio consolidato a proposito di un uomo, di un evento, di un’epoca.
Franco Cardini e Marina Montesano