I protagonisti del conclave che si svolse tra l’8 e l’11 novembre 1417 a Costanza, in Germania, sapevano perfettamente che quello che stavano celebrando era un evento unico nella storia, per molti motivi.
Unico perché non si era mai verificato prima di allora (né si verificherà dopo) che un papa venisse eletto in territorio tedesco; unico per la composizione del collegio degli elettori, di cui facevano parte cardinali ma anche vescovi, abati, perfino il priore di un ordine cavalleresco, un magister d’università e un dottore in diritto civile e canonico; unico soprattutto perché, dopo quarant’anni di spaccature e terribili lotte intestine che avevano portato all’esistenza di ben tre papi contemporaneamente (il famoso Scisma d’Occidente), quel conclave stava finalmente consegnando alla Chiesa un unicus et indubitatus pontifex.
E tuttavia, nessuno dei cinquantatrè (tra cui ventitrè cardinali) che la sera dell’8 novembre si rinchiusero dentro le stanze preparate per loro nel grande edificio che affacciava sul lago di Costanza, sospettava che la loro scelta avrebbe messo il sigillo e dichiarato finito per sempre il Medioevo cristiano e aperto le porte ad un tempo moderno che chissà dove li avrebbe condotti. Nessuno di certo lo sospettava.
Tantomeno lui, Oddone Colonna, che da quel conclave sarebbe uscito con il nome di Martino V.
Lo scisma sorto con la doppia elezione pontificia del 1378 non aveva prodotto solo discredito nei confronti della figura e dell’autorità del pontefice. Aveva soprattutto generato un sentimento di autosufficienza nei regnanti cristiani, e tra questi, in particolare, nel re dei Romani e futuro imperatore del Sacro Romano Impero, Sigismondo.
Più di chiunque, costui aveva spinto per la convocazione di un concilio a Costanza che deponesse tutti i sedicenti pontefici, nel frattempo lievitati fino a tre, per eleggerne uno che fosse universalmente riconosciuto.
L’antichissimo concetto di cristianitas, di un’unica comunità di credenti riunita sotto un unico pastore, al cui servizio imperatori e re mettevano le proprie spade, si stava frantumando, ridotta in tanti pezzi quanti erano i regni cristiani, ognuno dei quali rivendicava per sè privilegi e autonomia da Roma.
Accanto a questa minaccia esterna, il pontefice eletto a Costanza sapeva di doverne affrontare un’altra forse perfino maggiore perché tutta interna alla Chiesa, consistente nell’idea che l’autorità del concilio fosse derivata direttamente da Cristo e dunque superiore a quella del suo vicario in Terra, cioè il papa, obbligato per questo ad obbedirvi come qualunque cristiano.
Nazionalismi da un lato e conciliarismo dall’altro lasciavano prevedere una navigazione tutt’altro che pacifica per il pontificato di Martino.
La sua grandezza consiste proprio nell’aver saputo schivare la tentazione di una restaurazione in chiave nostalgica della cristianitas di antica memoria e, dopo lo sfascio degli anni dello scisma, aver rimesso a nuovo Roma preparandola a diventare una capitale rinascimentale in grado di imporsi senza complessi sugli altri centri del mondo cristiano, emblema di una potenza non più sovraordinata e universale ma di ineludibile importanza strategica nello scacchiere europeo.
Quanto alle tesi conciliariste risultate vittoriose a Costanza, era pur vero che senza di esse il dilemma dei tre papi non si sarebbe potuto risolvere.
Ma, ora che lo scisma era finito, Martino sapeva bene che seguendo alla lettera quei dettami avrebbe consegnato la Chiesa ad un futuro di assemblee e dibattiti permanenti che rischiavano non tanto di intaccare il potere del pontefice regnante, quanto di consegnare il destino della Sposa di Cristo nelle mani di chi avesse saputo orientarle, quelle assemblee, con il pericolo di continue strumentalizzazioni. Risultato: l’impegno di convocare periodicamente un concilio e di attenersi alle sue indicazioni per il governo della Chiesa venne rispettato nella forma, ma sostanzialmente rimase lettera morta.
Con la sua visione di un pontificato orgoglioso ma realista e libero da condizionamenti del passato, Martino V fu molto più di un papa di transizione. Fu un papa che seppe guardare decisamente avanti rispetto ai suoi tempi.
E chissà che non intendesse proprio questo chi, sulla sua lastra tombale, decise di definire questo grande pontefice “temporum suorum felicitas”.
Mario Prignano