Museo “L’Inferno a Campaldino”

L’Inferno a Campaldino. Questo titolo suggestivo ricorda il giorno fatidico in cui nella piana casentinese si svolse la battaglia, e fu veramente un inferno! Così come l’inferno fu vissuto per circa un secolo da Firenze, Arezzo e dai feudi casentinesi dei conti Guidi, e ovviamente il richiamo è alla cantica dantesca della Commedia. Il viaggio espositivo rende omaggio non solo alla battaglia di Campaldino, a cui partecipò il giovane Dante Alighieri, ma a Firenze ed Arezzo alla metà del ’200, al territorio casentinese con i suoi castelli, alle macchine da guerra e alla prassi guerresca.


SALA 1
L’EVOLUZIONE DEL CASTELLO E I CASTELLI IN CASENTINO

In questa prima sala il percorso museale, rendendo omaggio ad alcuni castelli del Casentino, illustra come l’incastellamento medievale, nato in Italia tra i secoli VI e VII, prima del Mille abbia trasformato le fortificazioni in legno che lo caratterizzavano in fortificazioni in muratura con alte torri, dotate di poche finestre e porte lontano dal suolo, a controllo del luogo. Tali costruzioni, che comprendevano anche un recinto in muratura, nei secoli successivi si trasformarono in un maniero, in un castello, o in un palatium arricchendosi poi di elementi architettonici caratteristici (ballatoi, terrazze, merlature, beccatelli, passa-volanti, ponti levatoi, bertesche, battifolli) dando vita a quel tipo di architettura chiamata “piombante” o “ossidionale”, mentre all’interno del recinto si aggiunsero cortili, stanze “caminate”, sale d’armi, magazzini, stalle, fondaci e, talvolta, cappelle; a piano terra era situata una cisterna per l’acqua con filtri in rena e carbone. Nella parte esterna il castello era circondato da un fossato, bagnato o asciutto, mentre la copertura poteva essere piana o a falde con scossaline e tubi interni al muro che portavano acqua piovana nella cisterna.

Un discorso a parte lo merita il castello di Poppi dei conti Guidi che ha origine tra i secoli VII e VIII quando, intorno al poggio, vennero erette una torre in legno e una cisterna con una palizzata in legno. Tra l’VIII e il IX secolo la torre venne edificata in muratura così come la cisterna, il cassero all’interno del recinto è invece del X secolo. La torre era in origine più alta rispetto a quella odierna e, com’era tipico dell’architettura a difesa piombante, aveva la porta d’ingresso in posizione molto alta rispetto al piano di calpestio. La costruzione degli edifici in muratura all’interno del recinto (stalle e magazzini a piano terra; stanze con camino ai piani superiori) risalgono ai secoli XI-XII così come lo sviluppo interno al cortile con ballatoi e scale in legno, la sala delle armi e di rappresentanza e il camminamento di ronda con merlature.

Tra il 1272 e il 1274 Simone Guidi ristrutturò il fortilizio su progetto di Lapo di Cambio trasformandolo in una vera e propria residenza signorile (“palatium”), inoltre venne innalzata la torre maestra e che si arricchì di un’edicola con coronamento di beccatelli sporgenti (poi presa ad esempio da Arnolfo di Cambio per la costruzione della torre di Palazzo Vecchio a Firenze) in seguito distrutta da un fulmine. Un’altra importante ristrutturazione del castello avviene nel 1470 con la costruzione della scala in muratura in pietra arenaria di fattura rinascimentale attribuita al Turriani che andò a sostituire quella in legno, inoltre fu eretta l’antiporta della Munizione, che dà accesso al primo recinto, a difesa della Porta del Leone che divenne l’ingresso principale venendo meno quella rivolta a valle verso Ponte a Poppi.


SALA 2
LA PRASSI GUERRESCA E L’ASSEDIO AL CASTELLO

Alcune riproduzioni delle macchine da guerra esposte nel museo

Il percorso prosegue in questa seconda sala con la descrizione delle armi bianche ossia di tutti quegli strumenti capaci di nuocere, ferire e uccidere per mezzo di punte, lame di metallo o forme contundenti. Erano distinte in armi corte (daghe, pugnali) e in armi lunghe o in asta (giavellotti, spiedi, lance) o ammanicate (mazze, scuri). Accanto alle armi bianche nei combattimenti e negli assedi si utilizzavano le macchine da guerra: molto difficili da spostare (per la loro mole) e da manovrare necessitavano di un personale molto addestrato. I modelli delle macchine esposti sono: la catapulta alla romana, l’onagro, il trabucco, lo scorpione, la scala ad elementi, l’ariete.

L’assedio ad un castello in genere veniva posto solo su un fronte, necessariamente nella parte più debole della fortificazione là dove era presente una porta principale o una postierla. All’assedio ad un castello (o ad una città) partecipavano le truppe e il personale capace di produrre e manovrare macchine da guerra al cui seguito erano i carri con derrate alimentari, ovini e bovini e beccai per macellare gli animali.
Nel caso in cui il castello assediato (o la città) veniva conquistato, gli assedianti erano soliti procedere al saccheggio e alla distruzione, in caso contrario gli abitanti venivano fatti uscire e alle truppe venivano “presentate le armi”.

FIRENZE E AREZZO NELLA SECONDA METÀ DEL DUECENTO

Firenze fin dalla metà del ’200 stava vivendo uno sviluppo ed un’espansione eccezionali, gli abitanti erano quasi raddoppiati e si accingeva a divenire una delle città più importanti d’Europa. Le sue fortune furono essenzialmente sviluppate grazie al dinamismo delle Arti e attraverso le attività mercantile e bancaria. La città si stava trasformando e fu deliberata la costruzione della nuova cinta muraria che l’avrebbe notevolmente ingrandita. Dopo la battaglia di Campaldino furono edificati, oltre alle mura e alle porte, il nuovo Palazzo dei Priori (Palazzo Vecchio) e si dette inizio al cantiere per l’erezione della grande cattedrale di Santa Maria del Fiore.

Se nei decenni precedenti i cambiamenti della vita politica e istituzionale erano stati frequenti e radicali, caratterizzati dalle alternanze dei governi dei guelfi, dei ghibellini e del Popolo, ora l’assetto politico della città pareva avere raggiunto un assetto stabile, con la definitiva affermazione del Popolo delle Arti, il cui governo dei Priori durerà per secoli. Non senza comunque nuovi sussulti e turbamenti di politica interna, il primo dei quali fu la necessità di arginare l’ambizione dei magnati (cioè degli esponenti della tradizionale aristocrazia comunale) che sostenevano di essere stati i veri protagonisti nella vittoria di Campaldino e che, in quanto tali, rivendicavano il diritto ad un ruolo di primo piano nella guida della città.

La città di Arezzo, con minore presenza demografica, viveva in stretto contatto con il suo territorio, di fatto le sue quattro vallate: il basso Casentino, il fertile Valdarno superiore, la Val Tiberina e la Val di Chiana; l’attività economica della città era strettamente connessa all’agricoltura e all’allevamento.

Anche ad Arezzo la vita politica era caratterizzata dalle lotte dilanianti tra guelfi e ghibellini e presenza importante erano le famiglie di alto lignaggio con i loro possedimenti castellani nel contado. Dalla metà del ’200 anche ad Arezzo si verificarono continui cambiamenti di governo che, nel 1287, portarono alla conferma della guida della città il potente vescovo Ubertini, appoggiato dai magnati sia ghibellini che guelfi e, non ultime, anche dalle stirpi nobili dei Pazzi del Valdarno e dei Tarlati. La cacciata dei magnati guelfi fu una delle motivazioni che scatenarono la battaglia di Campaldino.
L’ultimo pannello di questa sala è dedicato alle forze in campo dei due eserciti, quello guelfo fiorentino e quello ghibellino aretino, che si apprestarono ad affrontarsi nella piana di Campaldino l’11 giugno 1289.


SALA 3
LA BATTAGLIA DI CAMPALDINO

L’ultimo tema affrontato nel museo è la coinvolgente battaglia di Campaldino che si svolse nella piana casentinese l’11 giugno 1289 accompagnata dai testi fondamentali delle cronache del tempo di Dino Compagni e Giovanni Villani.

Nel 1289, dopo mesi e mesi di conflitti contro i ghibellini aretini la città di Firenze (guelfa) decise di muovere un importante esercito. Nel consiglio di guerra tenutosi in Battistero si decise di non percorrere la strada consolidata del Valdarno ma di affrontare l’aspro passo della Consuma.

Il 2 giugno i primi armati uscirono dalla città del Fiore e cominciarono la lunga marcia lungo l’Arno fino a Pontassieve per intraprendere la strada verso Borselli e il passo della Consuma. L’ultima tappa fu l’accampamento a Monte al Pruno per disporsi al combattimento la mattina dell’11 giugno. Amerigo di Narbona era il comandante in capo ma di fatto il ruolo era ricoperto da Guglielmo di Durfort.

Mentre i fiorentini stavano preparando l’attacco, i ghibellini, nell’ipotesi che il percorso dei fiorentini sarebbe stato attraverso il Valdarno, inviarono un contingente di armati verso Laterina. Fra il 7 e l’8 giugno, in completo ritardo, gli aretini presero atto che la realtà dei fatti era invece un’altra: in fretta e furia richiamarono tutti i cavalieri dal Valdarno e, insieme a tutte le masnade ed i feudatari fedeli all’Impero, compresi i fuoriusciti fiorentini ghibellini, mossero con l’intero esercito verso il Casentino decidendo di appostarsi nella piana di Campaldino per affrontare l’esercito guelfo. Al comando degli aretini era il vescovo Guglielmino degli Ubertini.

Gli aretini erano in grossa inferiorità numerica sia nella fanteria che nella cavalleria, fu deciso un attacco in forza per cercare di sbaragliare il fronte guelfo. L’impatto fu violento; nella prima linea dei feditori fiorentini, guidati da Vieri de’ Cerchi, c’era il giovane Dante Alighieri. Lo sfondamento in parte riuscì, ma le seconde linee fiorentine, soprattutto i fanti e i balestrieri, riuscirono a reggere l’urto e a colpire mortalmente moltissimi cavalieri aretini fra cui Bonconte da Montefeltro. Il colpo finale lo dette l’intervento della cavalleria di riserva fiorentina guidata da Corso Donati che, disobbedendo agli ordini ricevuti, intervenne nella mischia della battaglia. I due condottieri, il Durfort e il vescovo Ubertini, morirono; i fiorentini a fine giornata riportarono l’importante vittoria che fu dedicata a San Barnaba, il santo del giorno.

Dopo la battaglia di Campaldino Dante Alighieri cominciò la sua appassionante partecipazione alla vita politica; tornò in Casentino dopo la sentenza di condanna a morte nel suo triste esilio. Oltre al Poeta viene omaggiato il mito di Bonconte da Montefeltro, uno dei comandanti ghibellini, che morì in battaglia.

Alla battaglia di Campaldino è dedicato il suggestivo plastico con oltre 4.000 soldatini in scala in stagno e piombo dipinti a mano che illustra gli schieramenti all’inizio della battaglia. Inoltre, si possono ammirare due dipinti: I colori della battaglia di Silvano Campeggi e Gli eroi di Campaldino di Luca Ferrotti, l’audio Il sabato di San Barnaba e un video rievocativo.

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