Nei secoli fedeli. Cani e gatti nel Medioevo

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Cani e gatti erano amati e vezzeggiati anche nel Medioevo. Lo provano ritratti, manuali di allevamento, cronache e aneddoti, ma anche i nomi che venivano loro imposti

Tigri e Megastomo, Rubino e Bellina. Ma anche Martino, Miagolino, Tiberio e Zampetta. Il Medioevo dava nomi propri agli animali domestici riservando loro un ruolo speciale in famiglia e negli affetti più o meno come succede oggi. Può sembrare scontato ma non lo è: per secoli cani, gatti e affini furono considerati utili solo se svolgevano un “lavoro”. I cani facevano la guardia e partecipavano alla caccia, i gatti tenevano sotto controllo la proliferazione dei topi, altrimenti esponenziale. Ma il loro compito non si esauriva qui. Fido e Micio erano presenze fisse in molte case, in campagna come in città, e non si contano le fonti che dimostrano quante attenzioni i padroni riservassero ai loro beniamini, eccessi compresi. C’erano però differenze significative. Se infatti il cane, addomesticabile e obbediente, era considerato un compagno affidabile e rassicurante, il gatto a causa della sua natura indipendente era invece visto con sospetto. Si intrufolava in casa di nascosto, non rispondeva al richiamo, spariva e tornava a piacimento: in altre parole, era un essere “al confine” tra mondo domestico e natura selvaggia. Nonostante la sua indubbia utilità, finì quindi per essere associato al demonio e alle streghe e perseguitato, vittima di un pregiudizio secolare che dura ancora oggi. E dire che nel mondo islamico avveniva esattamente il contrario: ad essere apprezzati erano i gatti, che Maometto lodava per la pulizia, mentre i cani viceversa erano considerati impuri e il loro mantenimento domestico scoraggiato. Ma se ciò non impediva, nella pratica, che anche i cani fossero tenuti per diletto (lo dimostra una serie di manuali che insegnavano a prendersene cura in modo efficiente), il ruolo di Fido nell’Islam restò quello di lavoratore e basta.

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Ritratto di Carlo V con il cane (Tiziano, ca. 1533, Madrid, Museo del Prado)

In posa col levriero Non così i cani da caccia: allevati per la nobile arte esercitata dalle èlite, rappresentavano ovunque uno status symbol, un patrimonio da curare e gestire con oculatezza e di cui, all’occasione, pure vantarsi. Ci dà un esempio eloquente il conte Gastone III di Foix (1331-1391), che dedicò un intero capitolo del suo manuale di caccia all’allevamento dei levrieri. E ci confida il suo personale metodo per garantirsi affetto incondizionato: rivolgersi a loro come fossero, in tutto e per tutto, dei cristiani.
Simbolo di fedeltà per eccellenza, i cani hanno accompagnato i loro padroni sin dal passato più remoto e continuano a farlo nel Medioevo. Se ne trovano i resti in sepolture di età longobarda a Povegliano (Verona) e a Testona (Torino): levrieri e molossoidi per la precisione, sacrificati in occasione della morte del padrone. Col passare dei secoli, però, l’amore aumenta fino a trasformarsi, all’alba del Rinascimento, in una passione che contagia duchi e regnanti: allevare cani diventa un (costosissimo) hobby e farsi ritrarre in loro compagnia praticamente un obbligo. E’ un levriero persiano, ad esempio, a scortare Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, in partenza per il concilio di Basilea (l’affresco è del Pinturicchio). E sono due levrieri ad assistere Sigismondo Pandolfo Malatesta mentre prega nel Tempio di Rimini (qui il ritratto è di Piero della Francesca): la coppia gli era stata donata da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, e lui aveva fatto realizzare per loro una serie di collari d’argento dal suo orafo di corte.
Non paghi di comparirvi accanto, i signori commissionavano dei beniamini addirittura il ritratto: così il duca di Milano Galeazzo Maria Sforza chiese a Zanetto Bugato di immortalare «il cane chiamato Bareta» e lo stesso fece Francesco Gonzaga con Francesco Bonsignori. L’opera di quest’ultimo, si dice, era talmente ben riuscita da trarre in inganno un compagno di muta, che attaccò il ritratto avendolo scambiato per un cane vivo e vegeto.
La passione cinofila non conosceva confini e investiva anche letterati (Francesco Petrarca nella Sala dei Giganti di Padova compare con il cane che aveva adottato), prelati, persino santi. Quando il cane è insieme a una dama, però, le cose si fanno intrigranti e scatta l’allusione erotica. Scrive Enrico Maria Dal Pozzolo nel suo saggio “Parole, gesti e carezze nella pittura veneziana del Cinquecento” edito da Canova: «L’ipotesi è forse meno peregrina di quanto non sembri, se si considera che spesso nella lirica cortigiana s’insistette su un concetto di questo tipo: l’amante voleva godere dell’amata, stando sul suo seno, proprio come il cagnolino – si perdonino i bisticci – amato dall’amata. E poiché l’amata non sempre ricambiava l’amante col suo stesso ardore, anzi, quest’ultimo maturò una frustrazione crescente e spesso rabbiosa, che lo portò a ingaggiare una metaforica tenzone con l’animale: che se ne stava lì, beato, su quel candido petto, mentre lui pregava, gemeva, insisteva inutilmente. D’un tratto, ecco tramutarsi il cane da simbolo di fedeltà in quello di desiderio inappagato, di provocazione ed esclusione».

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Gatti e topi in un manoscritto medievale conservato presso la British Library di Londra

Eccessi di affetto Tutte queste attenzioni non erano sempre ben viste dalla Chiesa, la quale rimarcava laconicamente che il cibo destinato agli animali era sprecato e sarebbe stato meglio darlo ai poveri. Ma nei fatti c’era ben poco da fare. La mania era diffusa ovunque e anche i monaci e le monache amavano, al pari dei laici, la compagnia di cani, gatti e volatili. Non potendo sradicare il fenomeno si provò allora a gestirlo, raccomandando di evitare almeno gli eccessi: vietato ad esempio portarli in chiesa. Ma se la Regola delle Anacorete, un fonte inglese del XIII secolo, consentiva alle religiose di tenere al massimo un gatto purché non desse fastidio né distogliesse dalla preghiera e dalle occupazioni spirituali, molto meno rigido (anche per altre cose, in verità) fu il filosofo Alberto Magno, che agli animali dedicò un intero trattato con tanto di consigli per l’allevamento. Tutto ciò non impedì bizzarrie ed eccessi. Nel XIII secolo giunse ad esempio voce all’inquisitore Stefano di Borbone che i contadini di Lione si recavano a pregare sulla tomba di un cane di nome Guinefort venerandolo come un santo e attribuendogli miracoli di ogni sorta. Dopo una breve ricerca, Stefano scoprì la ragione. Tempo addietro il castellano e sua moglie avevano lasciato il loro pargoletto nella culla alla custodia del loro levriero. Sfortuna volle che nella stanza si intrufolasse un serpente: il cane, intervenendo in difesa del piccolo, aveva aggredito la bestia facendola a pezzi. Ma al suo ritorno la coppia aveva trovato il figlioletto insanguinato e, credendolo sbranato dal cane, il castellano disperato si era avventato sul levriero uccidendolo con un colpo di spada. Salvo poi scoprire la verità: il bimbo era incolume, poco distante giaceva la carcassa dilaniata della serpe. Sconvolti per l’errore, i coniugi avevano reso omaggio all’eroico cane seppellendolo nel pozzo davanti al castello e piantumando tutt’intorno a memoria del suo gesto. La fama di Guinefort, “cane santo”, si era estesa ai contadini del villaggio che ne avevano fatto meta di pellegrinaggio.

cane-manoscrittoNomi da cani (e gatti) Resta ora da vedere come i medievali chiamavano i loro beniamini. La storica Kathleen Walker-Meikle ha scoperto, leggendo il grande poeta inglese Geoffrey Chaucer e il curioso trattato “The Master of Game” scritto nei primi anni del XV secolo dal duca Edoardo di York, che i più diffusi nomi di cani britannici erano Sturdy, Whitefoot, Hardy, Jakke, Bo, Terri, Troy, Nosewise, Amiable, Nameles, Clenche, Bragge, Ringwood e Holdfast. Anna Bolena, una delle mogli di Enrico VIII, chiamò il suo cane Purkoy dal francese “pourquoi” perché pare fosse molto curioso. In Svizzera si preferivano i più classici Venus e Fortuna, oppure nomi che alludevano alla professione dei padroni come Hemmerli (“martelluccio”), il cane di un fabbro. In Francia il cavaliere Jehan de Seure e sua moglie avevano due cani da caccia di nome Parceval e Dyamant. Leon Battista Alberti ne aveva ricevuti in dono due di nome Tigri e Megastomo (“Grandi Fauci”). E poi c’erano i Gonzaga: Ludovico III, signore di Mantova dal 1444 al 1478, adorava i suoi Rubino e Bellina e quando il primo morì lo pianse nelle sue lettere e lo seppellì con tanto di epitaffio latino. Prima ancora lo aveva fatto immortalare dal Mantegna nel celebre affresco della “Camera degli Sposi” che raffigurava la famiglia al gran completo: lo si vede accucciato sotto il suo scranno. Altri levrieri e cani di varie razze compaiono negli affreschi circostanti. Anche Isabella d’Este adorava il suo gatto Martino e i suoi cagnolini Aura e Mamia. Alla scomparsa del micio, nel 1510, volle un’orazione funebre in sua memoria. Stessa reazione quando Aura morì precipitando dal balcone: la pianse a lungo e le costruì una tomba di marmo con tanto di statua, mentre poeti da tutta Italia facevano a gara per condividerne il dolore. Leggiamo per tutti Antonio Tebaldeo, che per l’occasione verseggiò addirittura in latino (qui lo leggiamo in traduzione): «O tu che passi, stanco per la lunga via e per il caldo,/fermati, qui giacciono sepolte le ossa della cagna Aura. /Il candido spirito mutato in lieve Aura/ memore del corpo vola fino al sepolcro».
Tornando ai gatti, sempre in Inghilterra era gettonatissimo Gilbert, diminutivo Gyb, mentre i francesi preferivano Tibers o Tibert. Gli irlandesi chiamavano i loro mici “miagolino” (Meone), “zampetta” (Cruibne), “fiammella” (Breone) e “grigetto” (Glas Nenta, letteralmente ortica grigia), “bianchino” (Pangur Bán). In Francia conosciamo un “Mite” che si aggirava intorno all’abbazia di Beaulieu, mentre per il resto pare che il nome che andasse per la maggiore fosse Tibers o Tibert. Divenne tanto popolare da indicare non solo un gatto in particolare, ma tutta la categoria, fino ai giorni nostri.

1Alcune curiosità

In memoria di Fido  «Bianco era, come un cigno di colore/ leggiadro ardito, parea che l’amore/ fatto l’havesse apposta sol di lei,/ s’ella posava e lui nel suo bel seno/ dormìa contento, se con festa e giocho/ scherzava, e lui con lei di festa pieno/ andava secho e stava in ogni locho./ Hor lei si dole e lui venuto a meno:/ così dura el piacer nel mondo poco». Così il poeta Panfilo Sasso, vissuto a cavallo tra Quattro e Cinquecento, ricorda il cagnolino della sua amata. Si trova in folta compagnia: accanto a poeti minori troviamo nomi di peso come quelli del Tasso, dell’Ariosto e del Marino. Al di là del compiacimento letterario, onorare le bestiole dei potenti non era altro che un modo per ingraziarsene i padroni.

Il gatto: da micio a demonio Secondo una metafora diffusa nel Medioevo, il diavolo giocava con l’anima del peccatore come il gatto faceva col topo. E data la sua natura sfuggente, il povero micio finì per essere associato al demonio andando incontro a un triste destino. Walter Map, ad esempio, sosteneva che il diavolo si mostrasse ai suoi adepti sotto forma di gatto nero e pretendesse da loro il “bacio sconcio” (osculum infame) sulle terga proprio sotto la coda come segno di sottomissione. L’accusa di venerare il gatto-demonio fu rivolta alle streghe (papa Innocenzo VIII nel 1484 sentenziò che “il gatto è l’animale preferito del demonio e l’idolo di tutte le streghe”), agli eretici (Catari e Valdesi in primis) e persino ai Templari. Come conseguenza, finì con loro sul rogo.

gatto-suonatoreL’allevamento? Un’arte per pochi Il conte Gastone di Foix raccomanda di tenere i cani in una cuccia di legno sopraelevata rispetto al terreno così da isolarla dal freddo e dal calore. Doveva essere cosparsa di paglia pulita e avere un accesso sul giardino per farli sgroppare a piacimento. La cuccia andava pulita ogni mattina e l’acqua cambiata almeno due volte al giorno; come cibo zuppa di pane e carne di selvaggina. I manuali arabi invitavano a far dormire i cani vicino al padrone (ma non nello stesso letto!) per cementare il legame fra i due, e poi a dar loro un solo pasto al giorno in inverno e più porzioni piccole in estate, a strigliarli e accudirli con morbidi panni di seta. Alberto Magno dissuadeva dal nutrirli direttamente dal piatto e dal coccolarli troppo, altrimenti avrebbero perso l’istinto a fare la guardia. E i gatti? Bisognava spuntar loro le orecchie, per evitare che la rugiada creasse fastidi, e le vibrisse per limitarne la baldanza.

Una vita in gabbia Falconeria esclusa, la fonte più interessante per l’allevamento dei volatili come animali da compagnia è il “Ménagier de Paris”, manuale scritto intorno al 1393 forse da un ricco mercante parigino per la sua novella sposa. I dettami che contiene non sono tanto diversi da quelli odierni: rifornire la gabbia di abbondante acqua fresca ogni giorno, lana cardata e piume per il nido, una dieta a base di bruchi, vermi, mosche, ragni, grilli, farfalle. E foglie di canapa ammorbidite nell’acqua.

Elena Percivaldi

Articolo pubblicato su Medioevo Misterioso, n. 4 (2016).
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