“Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e tutto quanto viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre dimorandovi da ospiti come forestieri e pellegrini”.
Dalle pagine del testamento, Francesco esortò i suoi frati a saper dire no. Dire no quando fossero loro offerti luoghi contrari alla vita povera prevista nella Regola che si erano dati. Dire no quando fossero loro offerte chiese destinate a un numero di sacerdoti eccessivo per una famiglia composta prevalentemente da laici.
Dire no all’ingresso senza limiti di nuovi frati all’interno della religione, con la conseguente necessità di conventi sempre più grandi. E dire no anche alle comunità cittadine che spingevano i frati a trasferirsi in città, per vivere in edifici monumentali costruiti nei borghi sorti a ridosso delle mura, oppure occuparsi del culto dei santi patroni in santuari urbani.
Morto Francesco, i caratteri originali di una comunità che era nata con una spiccata predilezione per residenze precarie, in luoghi da sogno lontani dai centri abitati, si sfrangiarono in uno strascico di polemiche tra i fautori di una vocazione contemplativa, che richiedeva silenzio e solitudine ma anche comunione con il creato, e i fautori di una vita attiva, che si nutriva del chiasso delle città moderne per esercitarvi la virtù della carità.
Tra “spirituali” e “conventuali”. Tra Maria e Marta. Dante avrebbe diviso il campo tra seguaci di Ubertino da Casale e seguaci di Matteo d’Acquasparta: “ma non fia da Casal né d’Acquasparta,/ là onde vegnon tali alla scrittura,/ ch’uno la fugge, e l’altro la coarta”.
Con mille differenti sfumature, le due parti in polemica si ritrovarono nel cercare la bellezza nelle forme dell’arte.
La pietra dello scandalo fu la chiesa sepolcrale di Assisi, caput et mater dei frati Minori, che vide frati della comunità e frati spirituali in competizione per rendere questa chiesa più bella di quanto già fosse.
I “conventuali” nella cappella papale della chiesa superiore, quando, con l’elezione di Niccolò IV nel 1288, l’intera navata fu dedicata al ruolo dei frati Minori nella storia della salvezza, grazie al confronto tra la vita dei patriarchi e la vita di Cristo nel claristorio superiore delle pareti, e la vita di Francesco nello zoccolo inferiore.
L’invenzione iconografica fu affidata a Matteo d’Acquasparta e adottò il racconto di Bonaventura da Bagnoregio nella Legenda Maior.
Il ciclo della vita di San Francesco si apre con l’omaggio delle magistrature comunali, che ha le sembianze di una allegoria di un “buon governo”, e si chiude con tre miracoli dedicati alle opere di misericordia e allo zelus animarum, secondo il modello di santità indicato dalla Chiesa nel XIII secolo.
In questi dipinti lo “stil novo” di Giotto voltò pagina rispetto alla “maniera greca”, trionfante ai tempi di Cimabue, in forma di un teatro naturale a dimensione realistica.
Negli anni immediatamente successivi, il primitivo programma iconografico della chiesa inferiore, che accompagnava i pellegrini in visita alla tomba del santo, tra due ali di dipinti murali che ritraevano la passione di Cristo e la sequela Christi di Francesco, fu sconvolto dall’apertura nelle pareti dell’accesso a una serie di cappelle destinate a tombe private.
L’iniziativa per una nuova decorazione fu presa dal cardinale Napoleone Orsini, grande mecenate di artisti, che si avvalse, ad Assisi e altrove, dei maggiori pittori del tempo: Giotto, Pietro Lorenzetti e Simone Martini. Ma fu anche protettore di mulieres religiosae e dei frati “spirituali”, avendo accolto Ubertino da Casale nella sua famiglia, in Italia e in Provenza. L’Arbor vitae crucifixae Jesu Christi di Ubertino è la fonte letteraria seguita dagli affreschi di Giotto e di Pietro Lorenzetti alle pareti del transetto, che ritraggono episodi dell’infanzia di Cristo e della passione, con al centro un Gloriosus Franciscus circondato dalle allegorie della Povertà, Obbedienza e Castità.
Sono immagini raffinate e bellissime, nelle quali una meticolosa riproduzione della natura si nutre di atmosfere fiabesche, dense di allegorie profane.
È la pittura moderna tanto apprezzata da una società in rapida evoluzione, aperta al mondo fantastico dei romanzi cavallereschi, alla Commedia di Dante e alle rime amorose di Petrarca, ma con i piedi ben piantati a terra per il ruolo che la società civile e mercantile stava assumendo negli orizzonti della società comunale.
La classe dei laboratores a fronte di quella dei bellatores e degli oratores.
Sullo scorcio del XIII secolo, i francescani di Gualdo Tadino si trovarono di fronte a una situazione quasi identica. Con una differenza di fondo: a Gualdo non si trattò di sostituire una decorazione antiquata con immagini di pittori moderni, e neppure di costruire una chiesa fienile che andasse a occupare spazi vuoti in una città in espansione.
A Gualdo fu tutta la città a essere ricostruita dalle fondamenta, in seguito al disastroso incendio che aveva distrutto nella primavera 1237 il popoloso borgo in località Val di Gorgo.
Gli abitanti dispersi si raccolsero sopra uno sperone isolato, denominato il colle di Sant’Angelo, dove c’era una piccola chiesa e una rocca che era stata fatta restaurare ai tempi di Federico I Barbarossa. Il sindaco della ritrovata comunità il 30 aprile 1237 ottenne la disponibilità del sito dall’abate dell’abbazia di San Benedetto, a cui apparteneva la chiesa di Sant’Angelo di Flea, “pro construendo et edificando de novo castrum Gualdi”.
Tre anni dopo, il 30 gennaio 1240, la nuova Gualdo fu visitata dall’imperatore Federico II di Svevia, che facendo sosta nel castello trovò il borgo abitato del tutto indifeso. Lo fece allora circondare da mura, rafforzate da numerose torri e da profondi fossati, fece ricostruire la rocca in vetta al colle e concedette numerosi privilegi ai gualdesi. Con la ultimazione delle mura, avvenuta nel 1242, come recita una lapide esistente sulla porta di San Benedetto, Gualdo Tadino diventò di fatto una città imperiale.
Nel 1256 i monaci dell’abbazia di San Benedetto si trasferirono all’interno delle mura e vennero a occupare il lato a monte della piazza dove erano già presenti i palazzi delle magistrature riconosciute da Federico II.
Poco dopo entrarono nella stessa piazza anche i frati Minori, mentre i frati Agostiniani si stabilirono nella parte inferiore dell’abitato.
Non sappiamo quale aspetto avesse e a quale anno risalisse la prima chiesa costruita dai frati all’interno delle mura, salvo che fu costruita sopra un terreno che era stato loro donato da un patrizio di nome Oddo. Doveva comunque avere un aspetto diverso dalla chiesa odierna.
La sola cosa che ne è rimasta è il grande Crocifisso patiens che in tempi recenti è stato trasferito nel Museo della Rocca Flea: opera di un pittore umbro noto sotto lo pseudonimo di Maestro della Santa Chiara, del quale si conosce un’attività che va dal 1257 circa, data del Crocifisso di donna Benedetta in Santa Chiara di Assisi, fino al 1283, data dell’icona con la Santa Chiara nella omonima chiesa di Assisi.
Rispetto a quest’ultima, la croce di Gualdo Tadino si distingue per l’imitazione del transetto cimabuesco di Assisi, nella figura del San Francesco ai piedi della croce costruito sovrapponendo strati di cristalli come i personaggi di Cimabue. Di conseguenza, la croce dovrebbe essere anteriore al pontificato di Niccolò IV (1288-1292). Forse della stessa epoca era una icona con una immagine della Madonna, che fu descritta in San Francesco nel 1862 per essere poi alienata a fine secolo.
L’ascesa di un francescano al pontificato costituì un momento di svolta per l’impianto iconografico della casa madre di Assisi, ma fu altrettanto importante per le altre comunità dei frati Minori, che s’impegnarono a costruire fabbriche monumentali ovunque fossero chiamate dai governi comunali. Diciamo che l’elezione di Niccolò IV fu il vero inizio della stagione “conventuale”.
La chiesa di San Francesco di Gualdo Tadino è un edificio a una sola navata di tre campate e con un’abside poligonale di sette lati. La chiesa è coperta con volte a crociera nell’intera navata e da una volta a ombrello nella tribuna absidale.
A metà altezza dell’intero perimetro corre uno stretto ballatoio rientrante, che passa dietro i pilastri a tre colonnini addossati alle pareti, che fanno d’imposta ai costoloni delle volte. Tra la seconda e la terza campata c’è ancora l’ingresso al pontile che divideva l’aula in due parti. Da qui si potevano celebrare funzioni liturgiche per la chiesa dei laici nello spazio antistante, laddove lo spazio retrostante ospitava la chiesa dei frati.
L’edificio segue alla lettera l’aspetto dalla basilica papale di Assisi, imitata persino nella forma dei contrafforti cilindrici esterni e nelle linee della tribuna absidale, salvo che ad Assisi troviamo cinque lati invece di sette: numero mistico per eccellenza. Anche lo zoccolo inferiore della navata si distingue dal precedente di Assisi per le nicchie provviste di altari che vi si aprono, laddove nel San Francesco di Assisi – ma anche in Santa Chiara di Assisi e in San Francesco al Prato a Perugia – lo zoccolo è una parete continua interrotta dai soli pilastri lobati.
Questa soluzione ha una indubbia importanza, perché di cappelle nella pars plebana, cioè nello spazio accessibile ai laici, non si trovano tracce nelle chiese degli ordini mendicanti della regione fin verso la fine del XIII secolo, e fanno seguito al capitolo generale di Parigi della primavera 1292, quando furono rimossi i divieti di concedere ai laici la sepoltura all’interno delle chiese dei frati, vincendo le resistenze del clero secolare che temeva di perdere i cospicui proventi dei lasciti testamentari.
Le conseguenze non tardarono a farsi notare in edifici di nuova costruzione, come il San Fortunato di Todi, fondato nel 1292, o Santa Croce a Firenze, fondata nel 1294: il primo con le cappelle addossate alle navate laterali, la seconda con le cappelle nel perimetro del presbiterio.
Nella stessa Assisi, sullo scorcio del XIII secolo furono aperte in rottura una serie di cappelle destinate a sepolture private sulle testate del transetto e alle pareti della navata nella chiesa inferiore.
A queste vicende è dovuto l’acuirsi delle polemiche tra Spirituali e Conventuali e collegate all’aspetto dei nuovi edifici di culto che furono costruiti per i frati Minori in anni non lontani dall’anno 1300. La chiesa di Gualdo ce ne offre un caso esemplare, avendo le caratteristiche di una chiesa oggetto di un culto civico, per trovarsi nel perimetro della piazza centrale di una città di recente costruzione.
Potremmo definire Gualdo una “città ideale” del tardo Medioevo, con una piazza, due chiese e un palazzo, verso le quali convergono gli assi di un impianto urbanistico del tutto nuovo.
A mezzogiorno la piazza è chiusa dalla sede del Comune e a oriente dalla chiesa abbaziale di San Benedetto. Quest’ultima ha l’abside rivolta verso oriente e la facciata rivolta verso occidente, come da consuetudine.
San Francesco occupa tutto il lato occidentale della piazza con una parete continua. Ha la facciata principale rivolta a mezzogiorno e la tribuna absidale rivolta a settentrione. Di conseguenza l’interno della chiesa è illuminato da un rosone che si apre sulla facciata meridionale e da tre bifore nella tribuna che guarda a settentrione.
Le pareti della navata sono illuminate da due bifore verso occidente, una delle quali è accecata dalla canna del campanile. Nessuna finestra si apre sulla parete che guarda verso oriente, e forse fu per questa ragione che si decise di costruire una cappella a ridosso della parete orientale della terza campata, dove era il coro dei frati, alle spalle del pontile che separava la pars plebana dalla pars presbiterialis. La luce al tramonto che entrava in chiesa da occidente ne illuminava l’interno con un sensibile richiamo alla parusia dell’ottavo giorno.
Presso l’Archivio Provinciale dei frati Minori Conventuali dell’Umbria è conservato un faldone di documenti che contiene una copia dell’atto di acquisto da parte dei frati di un oratorio intitolato a Santa Maria della Misericordia, con annesso un orto e altri fabbricati. L’oratorio fu acquistato l’8 maggio 1293 e confinava con la strada pubblica, l’orto dei frati Minori, un terreno del Comune e l’orto dei frati di Sant’Agostino. Fu probabilmente in seguito a questo acquisto che fu presa la decisione di ricostruire la chiesa di San Francesco, per la quale si ha notizia di una cerimonia di consacrazione avvenuta il primo maggio 1315.
Elvio Lunghi
Articolo pubblicato all’interno del dossier “UMBRIA. A Gualdo Tadino i Giochi de le Porte“,
MedioEvo, settembre 2017 (mensile culturale, anno XXI, N° 248)
Immagine del crocifisso ligneo: © Daniele Amoni
Dossier realizzato con il sostegno di