Stupor mundi, un epiteto enigmatico

da

«Stupor mundi» è per antonomasia l’imperatore Federico ii di Svevia (1194-1250). Non c’è dubbio: non c’è neanche bisogno di specificarlo, perché ormai sono davvero tanti i libri, gli oggetti o le manifestazioni pubbliche (compresi i musei e i Festival) che associano l’appellativo al personaggio. Generalmente, però, nessuno si chiede cosa significhi davvero, o da dove derivi.

L’epiteto è certamente coevo al personaggio cui viene attribuito, ma solo in epoca recente ha acquisito la sua particolare connotazione. Si deve a un cronista della metà del xiii secolo, il monaco benedettino inglese Matteo Paris, che lo usò, aggiungendo sul margine del suo manoscritto autografo la notizia morte di Federico ii, avvenuta il 13 dicembre 1250. «Obiit… principum mundi maximus Frethericus, stupor mundi et immutator mirabilis», che traducendo in maniera letterale significa «è morto il più grande tra i principi della terra, Federico, che fu anche stupore del mondo e suo meraviglioso modificatore».

Matteo Paris (Matheus Parisiensis), Cronica maiora, ed. F. Liebermann, Hahn, Hannoverae 1888 (MGH, Scriptores, xxviii), p. 319. Traduzione di Fulvio Delle Donne:
 
Obiit autem circa eadem tempora principum mundi maximus Frethericus, stupor quoque mundi et immutator mirabilis, absolutus a sententia qua innodabatur, assumpto, ut dicitur, habitu Cisterciensium, et mirifice compunctus et humiliatus.
 
De morte Fretherici. Obiit autem circa eadem tempora principum mundi maximus Frethericus, stupor quoque mundi et immutator mirabilis, absolutus a sententia qua innodabatur, assumpto, ut dicitur, habitu Cisterciensium, et mirifice compunctus et humiliatus. Obiit autem die sancte Lucie, ut non videretur ea die terremotus sine significacione et inaniter evenisse.
 
Morte di Federico. All’incirca in quel tempo, il più grande tra i principi della terra, Federico, che fu anche stupore del mondo e suo meraviglioso modificatore, morì sciolto dalla sentenza di scomunica da cui era stretto, dopo aver indossato, a quanto dicono, l’abito dei cistercensi, mirabilmente compunto e umiliato. Morì nella festa di santa Lucia, perché non si vedesse quel giorno che un terremoto era avvenuto senza ragione e invano.
 
Nell’immagine: Manoscritto autografo dei Cronica maiora di Matteo Paris, Cambridge, Corpus Christi College, MS 016II, fol. 245r, con dettaglio dell’annotazione marginale sulla morte di Federico ii e dello scudo rovesciato con l’insegna sveva dell’aquila bicipite.
 
Qui è possibile visionare il manoscritto

La definizione completa è, dunque, «stupor mundi et immutator mirabilis» ed è sicuramente suggestiva. Del resto, Matteo Paris accompagna la notizia sulla morte dell’imperatore con il disegno dell’insegna della casata sveva, l’aquila imperiale bicipite, capovolta in segno di lutto come per un terremoto, a rappresentare anche icasticamente la fine di un’epoca terrena: gli sconvolgimenti legati al suo impero diventano nulla di fronte alla morte alla quale nessuno scampa. Si tende, però, ad astrarre e assolutizzare quella locuzione, senza pensare che per gli uomini del Medio Evo – e in particolare per un monaco come Matteo Paris – l’ordine del mondo era espressione della volontà imperscrutabile di Dio, così che ogni innovazione era recepita come una sorta di empia ribellione alle disposizioni celesti. E si dimentica, poi, che il medesimo cronista, in un’altra opera (l’Historia Anglorum), l’aveva usata esattamente identica anche per il potentissimo pontefice Innocenzo iii (1160-1216), colui che aveva fatto da tutore al piccolo Federico e che, pur papa, amava definirsi «verus imperator». Anche in questo caso, egli ne annota la morte, specificando che «vere stupor mundi erat et immutator seculi», cioè che «veramente era stupore del mondo e modificatore del secolo», e che era destinato all’assai terribile giudizio di Dio.

Innocenzo iii era stato chiamato così anche da altri autori inglesi, come il celebre maestro di retorica Goffredo di Vinsauf, che, dedicandogli l’opera, iniziava il primo verso della sua Poetria nova.con le parole «Papa stupor mundi». L’accezione (attestata anche per altri personaggi illustri di ambito inglese, come Riccardo Cuor di leone) potrebbe, fin qui, ancora essere interpretata in maniera certamente positiva, ma la nostra convinzione inizia a vacillare più decisamente quando leggiamo il testo di una profezia diffusa nel 1241 e attribuita a Michele Scoto (pubblicata da O. Oswald Holder-Egger in un articolo del 1905 per il «Neues Archiv», p. 364): il «papa, stupor mundi», campione di simonia, «rimarrà stupito (stupebit) quando capirà di non poter arraffare niente secondo il suo costume». È possibile che l’autore conoscesse il trattato di Goffredo di Vinsauf e che lo citasse in chiave parodica, tuttavia, facciamo un ulteriore passo e leggiamo una definizione contenuta in uno dei più importanti lessici enciclopedici dell’epoca. Nelle Derivationes di Uguccione da Pisa (morto nel 1210) troviamo: «Pape, interiectio admirantis; unde papa, id est admirabilis», cioè «Pape, interiezione di ammirazione; da cui viene papa, cioè degno di ammirazione». Il lessico di Papìa, pure diffuso e risalente al secolo precedente, offre la stessa definizione. Anche gli antichi commentatori della Commedia di Dante, dal canto loro, spiegano allo stesso modo la prima parola dell’oscuro verso di apertura del canto vii dell’Inferno: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe», pronunciato da Pluto «con la voce chioccia». Qui l’associazione con Satana riveste indubitabilmente d’orrore il termine.

Insomma, poniamo un primo punto fermo: la locuzione «stupor mundi et immutator mirabilis», attestata in diverse occasioni, è usata innanzitutto per il papa Innocenzo iii e non per Federico ii. Inoltre, sembra giocare sul significato stesso del termine «papa», che rimanda a una interiezione di stupore. Ma torniamo a Federico ii.

Nel “manifesto” (o atto destinato alla lettura pubblica) elaborato nel 1245 per conto di papa Gregorio ix da Ranieri di Viterbo, un fanatico seguace di Gioacchino da Fiore, si legge che Federico fu «immutator seculi»: certamente non col senso positivo di «innovatore», quanto piuttosto con quello di «turbatore del mondo», in quanto è «distruttore dell’orbe e martello di tutta la terra» («immutator seculi, dissipator orbis et terre malleus universe»: il testo è negli Acta imperii inedita pubblicati da Eduard Winkelmann nel 1880, p. 709). Ecco, dunque, che l’altro elemento della locuzione, quello legato al mutamento, acquista un senso ben definito e non proprio rassicurante.

Federico ii ha compiuto grandi imprese, come la “crociata della pace” condotta nel 1228-1229. Ed è il promotore di straordinarie innovazioni culturali: si pensi alla “Scuola poetica siciliana” e alla nascita della letteratura italiana; alle traduzioni dall’arabo e dal greco delle opere di Aristotele; alla fondazione della prima università “statale” della storia, istituita a Napoli nel 1224. Per non parlare della composizione del De arte venandi cum avibus (L’arte di cacciare con gli uccelli), il trattato di ornitologia che Federico scrisse con approccio sperimentale e con l’obiettivo di «rendere manifeste le cose che sono, così come sono».

Per noi uomini del presente, educati ai principî del pensiero illuministico, l’interesse per i problemi del sapere scientifico, filosofico e letterario è indubbiamente connesso con la modernità, che ha sempre connotazione positiva. Dunque, se ci limitiamo a osservare le cose dalla nostra prospettiva, Federico appare un eccezionale precorritore dei tempi. Ma per gli uomini del xiii secolo la sua ricerca di conoscenza non fu sempre apprezzata. Ciò risulta con evidenza dalla Vita Gregorii ix, cioè dalla biografia di colui che fu acerrimo nemico dello Svevo, scritta da un autore di cui non ci è dato conoscere il nome. Lì si afferma senza mezzi termini che Federico fu traviato dalla frequentazione dei Greci e degli Arabi, i quali lo indussero a bestemmie terribili, come la negazione del dogma della verginità della Madonna o la riprovevole dichiarazione che Cristo era un truffatore, al pari di Mosè e Maometto. Dunque, era la sete di sapere che conduceva Federico II all’eresia, e soprattutto era la lettura delle opere filosofiche da lui fatte tradurre dal greco e dall’arabo – e che deviavano dalla tranquillizzante conoscenza ortodossa – a renderlo degno di violenta riprovazione.

Gli uomini, a quei tempi, dovevano essere innanzitutto buoni cristiani e star «contenti al quia», per dirla con Dante. Il desiderio di conoscenza di Federico, invece, a qualcuno apparve senz’altro eccessivo, tale da travalicare i limiti di ciò che è consentito da Dio. Così, il francescano Salimbene de Adam, suo contemporaneo, delineò la figura di Federico in maniera ancora più ambigua di Matteo Paris. L’imperatore fu dotato di eccezionali virtù naturali: conosceva molte lingue e sapeva leggere, scrivere e comporre canti e poesie. Perciò fu uomo valente e cortese. Di certo, nel mondo, in pochi l’avrebbero eguagliato, se solo – ed ecco l’affondo finale – egli fosse stato «cristiano e avesse amato Dio, la Chiesa e l’anima sua».

Fulvio Delle Donne

Da MedioEvo n. 236, marzo 2024