Il 5 marzo dell’anno 493 la città di Ravenna apre le porte e abbassa il capo di fronte a Teodorico, re dei goti.
L’estenuante assedio è durato tre lunghissimi anni. E sarebbe durato all’infinito se Teodorico non si fosse deciso a dotarsi di una flotta per chiudere il porto.
L’ostrogoto era arrivato dalla Germania e aveva cinto d’assedio le mura, ma per 24 mesi la capitale dell’impero continuò a ricevere rifornimenti via mare.
Finalmente assediato anche il porto, Teodorico era riuscito a privare la città di ogni contatto con l’esterno. Sei mesi dopo il vescovo Giovanni si era proposto di fare da mediatore con Odoacre: l’uomo che aveva messo la parola “fine” sulla storia dell’Impero Romano.
Giusto la parola, beninteso, che di impero ormai ce ne era rimasto poco e di romano proprio niente. Era infatti già un secolo che i sempre più insignificanti cesari avevano abbandonato l’ormai ex caput mundi: se già Costantino il celebre editto sulla libertà religiosa del 313 lo aveva proclamato da Milano, sotto Teodosio la città lombarda aveva consolidato il suo ruolo centrale, tanto che alla morte dell’imperatore era diventata ufficialmente la capitale dell’Impero Romano d’Occidente, mentre Roma sprofondava nel degrado e nell’abbandono.
In compenso, per contrappasso Milano capitale aveva avuto vita molto breve: proprio il primo imperatore d’occidente – Flavio Onorio, figlio di Teodosio – aveva deciso nel 402 di trasferire la propria residenza a Ravenna. Milano era troppo esposta agli attacchi dei barbari, mentre la città romagnola godeva di una migliore posizione strategica ed era anche più vicina alla gemella Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente.
Ravenna si era trasformata così in una città cosmopolita, fulcro di gravitazione politica, culturale e religiosa. Dopo aver preso a modello il fasto di Costantinopoli, la città aveva assunto l’aspetto di una residenza imperiale bizantina. La basilica romana era diventata la Cattedrale cristiana e poi erano state costruite altre chiese, il palazzo arcivescovile, il battistero e il palazzo della Moneta, dove veniva coniato il denaro. Galla Placidia, anch’essa figlia di Teodosio e reggente per il figlio Valentiniano III, aveva fatto costruire nuovi luoghi di culto, una nuova cinta muraria e il mausoleo che porta il suo nome; anche se lei, in realtà, non c’è sepolta, essendo morta a Roma.
Per trent’anni il trono di Ravenna era stato – di fatto – conteso tra le ambizioni di Bisanzio e quelle dei nuovi arrivati in Italia: i barbari.
A Valentiniano – ucciso nel 455 – era succeduto Petronio Massimo, probabile mandante dell’omicidio del suo predecessore, che aveva sposato a forza la vedova Licinia Eudossa, figlia dell’imperatore d’Oriente.
L’obiettivo di Petronio era quello di consolidare il rapporto tra i due imperi, ma il risultato era stato l’invasione di Roma da parte dei vandali, invocati dalla stessa Licinia. Il popolo romano, inferocito, aveva linciato il suo imperatore, risparmiandogli la visione del terribile sacco della città. A salire sul trono era stato dunque Avito, che aveva cercato con ogni mezzo di salvaguardare l’impero ma aveva finito per perdere la Spagna invasa dai visigoti. Era stato così il turno di Maggiorano: anche lui aveva lottato a lungo per preservare la gloria romana, finendo tradito e ucciso dal suo generale di origine barbara Ricimerio, che aveva messo sul trono Libio Severo Serpenzio, imperatore-fantoccio ai suoi ordini. Uscito di scena anche Libio, l’imperatore d’Oriente Leone I aveva fatto eleggere Antemio Procopio, anch’esso ucciso da Ricimerio, che aveva imposto a sua volta Anicio Olibrio continuando a mantenere il potere. Dopo la morte del generale barbaro era salito al trono Glicerio, deposto nel 474 da Giulio Nepote, che lo aveva sostituito con l’appoggio dello stesso Leone.
Nepote era stato poi vittima di un colpo di stato ordito dal generale Oreste, anch’egli di origini germaniche, che lo aveva cacciato da Ravenna e aveva nominato imperatore suo figlio Romolo Augustolo, di origine romana per parte di madre, che Bisanzio non aveva mai riconosciuto.
Appena dieci mesi dopo la nomina – però – nel 476 Odoacre, capo di una milizia di mercenari eruli, sciri, rugi e turcilingi, si era ribellato a Oreste.
Al comando delle milizie imperiali barbare, Odoacre aveva rivestito un ruolo fondamentale per la cacciata di Nepote e aveva chiesto come ricompensa un terzo dei territori italiani. Di fronte al rifiuto di Oreste gli aveva mosso guerra, lo aveva ucciso e aveva deposto Romolo Augustolo, ripristinando sul trono Giulio Nepote.
Un trono solo simbolico, però: Odoacre voleva il potere effettivo ed era stato acclamato dalle sue milizie re d’Italia. A Nepote non aveva permesso nemmeno di fare rientro in Italia, lasciandolo morire in Dalmazia.
In compenso Odoacre aveva regnato a nome dell’ultimo imperatore e aveva coniato monete con la sua effige. Dopo la morte di Giulio – nel 480 – l’autorità imperiale era stata invece formalmente riconsegnata nelle mani di Zenone, imperatore di Costantinopoli.
Era cessato quindi di esistere a tutti gli effetti l’Impero Romano d’Occidente. Tornava ad esistere un solo impero e l’Italia finiva formalmente sotto l’autorità di Bisanzio, anche se in realtà Odoacre rivendicava una totale autonomia nella gestione del governo.
Un governo su cui, comunque, nessuno aveva avuto niente da ridire: il re barbaro aveva mostrato rispetto per tutte le istituzioni, a cominciare dalla Chiesa Cattolica, nonostante lui fosse di fede ariana.
Tuttavia, con il tempo la rivalità con l’imperatore Zenone si era fatta sempre più minacciosa. Zenone non si fidava del condottiero barbaro, che continuava ad estendere il suo potere in Italia con campagne contro i visigoti e con politiche che gli fruttavano il consenso popolare. Intanto, ad ovest, c’erano gli ostrogoti che si allargavano sui Balcani minacciando l’impero.
Zenone aveva pensato così di risolvere due problemi in uno, offrendo a Teodorico il regno d’Italia se fosse riuscito a cacciare il generale.
Nato al confine tra Austria e Ungheria, Teodorico era figlio del re degli ostrogoti Teodemiro ed era cresciuto proprio alla corte di Bisanzio, dove era stato inviato come ostaggio per garantire la pace tra il regno dei goti e Impero d’Oriente.
Nella capitale aveva vissuto per dieci anni, imparando il latino e il greco; poi era tornato in patria distinguendosi come abile condottiero. Nel 474 era succeduto al padre come re degli ostrogoti, continuando le politica di alleanza con l’impero bizantino. I suoi successi a difesa dell’impero avevano portato Zenone a nominarlo console nel 484 e a fargli erigere addirittura un monumento equestre. Ecco dunque un altro alleato sempre più ingombrante per Bisanzio. Niente di meglio, allora, che mettere i due condottieri l’uno contro l’altro prima che potessero diventare pericolosi per gli interessi di Costantinopoli.
Nel 489 il re degli ostrogoti si era così mosso verso le Alpi scontrandosi con Odoacre. Battuto sull’Isonzo, e subito dopo a Verona, il re d’Italia si era rifugiato a Ravenna, mentre Teodorico si era diretto a Milano dove aveva sconfitto l’intero esercito nemico capeggiato dal generale Tufa.
Teodorico aveva quindi inviato Tufa a Ravenna per trattare la resa ma – a sorpresa – ne era scaturita una riscossa che aveva rovesciato le parti con Teodorico assediato a Pavia da Odoacre. Grazie al soccorso da parte dei visigoti, le sorti si erano ancora una volta invertite, e il re d’Italia si era trovato costretto nuovamente a rifugiarsi nella capitale, dove era iniziato il lungo assedio da parte dei goti.
Per due anni la città era risultata inespugnabile grazie ai continui rifornimenti dal mare. A complicare la vita del re ostrogoto, poi, c’erano state defezioni, tradimenti e piccole faide. Ad ogni modo nel 492 Odoacre aveva ormai perso ogni speranza di vittoria: una sortita su larga scala appena fuori Ravenna, nella notte tra il 9 e il 10 luglio 491, si era rivelata un completo fallimento, con la morte del suo generale Livilia assieme ai migliori soldati eruli.
Nella tarda estate gli ostrogoti avevano ultimato l’assemblaggio di una flotta presso Rimini con la quale iniziare un blocco marittimo della capitale. La guerra era continuata fino al 25 febbraio 493 quando Giovanni, vescovo di Ravenna, era riuscito a negoziare un accordo tra le due parti: Odoacre e Teodorico avrebbero regnato insieme in Italia.
Così, dopo un assedio durato tre anni, il 5 marzo Teodorico fa il suo ingresso nella città.
Dieci giorni dopo, a sancire la pace raggiunta, il Re goto invita Odoacre ad un grande banchetto. Il sontuoso pranzo è apparecchiato al palazzo Ad Laurentum e sono presenti le corti dei due sovrani al gran completo.
C’è un clima di grande festa ed allegria. I musici ci danno dentro con arpe, flauti e tamburi, i giullari cantano, i cani giocano in attesa degli avanzi.
Al tavolo d’onore, rialzato e coperto da un baldacchino e arazzi dorati, siedono Teodorico e Odoacre, affiancati dai rispettivi coppieri.
A fianco della tavola c’è un tavolino più basso in cui fanno bella mostra di sé il vasellame, gli argenti da pompa e i piatti con le vivande, che saranno assaggiate dal credenziere prima di essere servite.
Uno squillo di trombe annuncia l’ingresso del maestro delle cerimonie seguito dalle portate. Il trinciante taglia la carne e il pesce e lo scalco le serve con le salse ai commensali. Odoacre mangia con gusto affondando le dita sulla portata, e commenta soddisfatto che non ha mai mangiato così bene.
Teodorico lo guarda fisso e sorride.
Viene il momento del brindisi. I coppieri, dopo avere assaggiato il vino e verificato che non è avvelenato, lo versano sui calici d’argento. I due sovrani sollevano le rispettive coppe e le fanno sbattere l’una contro l’altra. Una parte del vino nella coppa di Teodorico finisce nel calice del rivale, e viceversa.
“Al nostro regno comune!” esclama Odoacre e si porta la coppa alle labbra. Ma mentre quello beve con gusto il delizioso nettare degli dei, Teodorico in un lampo lascia cadere la sua coppa, afferra la spada, la sguaina e colpisce Odoacre alla clavicola.
Il rivale lo guarda con gli occhi terrorizzati e il petto inondato di sangue. Subito nella grande sala scintillano altre decine di spade: è l’inizio di una carneficina.
Odoacre crolla a terra. Teodorico infierisce con un altro colpo al cuore. Il nemico lo guarda con gli occhi persi. Con l’ultimo soffio di vita che ha ancora in gola riesce solo a dire: “Dov’è Dio?”.
“Questo è quello che hai fatto ai miei amici” risponde Teodorico, con freddezza. Poi raggiunge i suoi per continuare il massacro: non un solo soldato fedele a Odoacre uscirà vivo da quella giornata. La moglie Sunigilda viene lapidata a morte, il fratello Onulfo riesce a fuggire dal palazzo e cerca rifugio in una Chiesa, ma viene colpito dalle frecce degli arcieri sul sagrato. Il figlio Thela sarà esiliato in Gallia, ma quando cercherà di rientrare in Italia sarà anch’egli ucciso.
Teodorico, da parte sua, governerà l’Italia per 33 anni, lasciando un ottimo ricordo.
Anch’egli ariano, cercherà di rispettare e proteggere la Chiesa Cattolica seguendo l’esempio di Odoacre, diventando aggressivo solo nel momento in cui si sentirà sotto attacco; riuscirà a far convivere pacificamente latini e goti ed emanerà un codice di leggi che regolerà la vita civile con un diritto basato sull’appartenenza etnica per il quale riceverà il plauso generale; in politica estera cercherà di guadagnarsi un ruolo di prestigio tra i sovrani barbari e di mantenere una sempre più difficile pace con l’Impero d’Oriente; un grande impulso lo darà poi alle opere pubbliche, facendo ristrutturare l’acquedotto e costruire il grande mausoleo in pietra che porta il suo nome e dove – secondo una delle molte leggende che circondano la sua fine – morirà, colpito da un fulmine, il 30 agosto 526. Proprio dalla vasca centrale della maestosa struttura lo raccoglierà un cavallo nero sceso dal cielo per caricarlo in groppa e portarlo in volo fino al cratere dell’Etna, sua dimora eterna.
Arnaldo Casali